Oggi continua la nostra avventura alla (ri)scoperta della letteratura. Con “Il Deserto”, Teresa ci fa entrare in profondità nel libro di Buzzati, addolcendone le rigidità ed evidenziandone le sfumature.
IL DESERTO DEI TARTARI, Dino Buzzati, 1940
Una mattina di settembre il neo-ufficiale Giovanni Drogo salì a cavallo e partì verso il suo primo incarico ufficiale: una roccaforte di confine, con “un insistente pensiero, che non gli riusciva di identificare, come un vago presentimento di cose fatali “, e non da lì non fece (quasi) più ritorno.
La fortezza, inizialmente a lui odiosa, lentamente ed inesorabilmente diviene casa e abitudine, un’abitudine appiccicosa come tela di ragno: il rumore della cisterna da fastidio diventa un suono naturale quanto il ritmo del suo cuore, la divisa diviene seconda pelle, con il passare dei giorni “tutte queste cose erano ormai diventate sue e lasciare gli avrebbe causato pena”.
L’uomo cerca di costruire un qualcosa di stabile, una propria dimensione, una casa, che dia protezione e sicurezza. Una volta che si trova questo equilibro si può finire schiacciati dalle stesse mura faticosamente costruire. Lentamente uccisi dal crogiolarsi in facile, prevedibile, a tratti meravigliosa, routine, con il sopito desiderio della grandezza.
Perché nella Fortezza è la speranza ad alzare dal letto ogni giorno tenenti, ufficiali, sarti e comandanti. Speranza nel tanto atteso momento di gloria, nell’arrivo dei nemici, nel giorno decisivo, è per questa speranza che si continuano a spolverare i cannoni, a lucidare le pistole e allacciare le scarpe.
Si continua ad aspettare ed anche un po’ a morire, il tempo scorre e spesso si vive nell’attesa, senza agire sulla realtà, senza far nulla per cambiare le cose.
Leggendo si è in uno stato di tensione costante verso il decisivo momento in cui Drogo finalmente si libera dalla Fortezza, che ormai oltre che essere fatta di mura è anche dentro di lui, da quel posto fatto di vane speranze, di formalismi inutili e ore vuote.
La domanda che al lettore sorge, inesorabile, è la seguente: la risposta ai problemi esistenziali di Drogo sarebbe stata nel cambiare vita? “Se lui fosse un uomo comune, a cui per diritto non tocca che un mediocre destino?” Oppure il Vuoto, che è insieme bellezza e mistero, della Fortezza si trova ovunque ed in ogni cosa? E come uscirne? Siamo forse tutti “uomini comuni”? Ed è questo forse un male?
“Drogo guardò ancora verso il settentrione; le rocce, il deserto, le nebbie in fondo, tutto pareva vuoto di senso.”
Teresa