Quando Nick Carraway si era trasferito a West Egg, in una catapecchia per soli ottanta dollari al mese, non avrebbe mai potuto immaginare ciò che sarebbe accaduto quell’estate.
E’ lui la voce narrante, lui che vede, che aiuta, che osserva, non agisce, ma c’è ed è tanto fondamentale quanto silenzioso.
Dal portico vede il suo vicino, il misterioso Jay Gatsby, una figura al limite del mitologico, sulla quale ognuno crea le più fantastiche leggende.
Il castello dell’enigmatico eroe, periodicamente diviene un gigantesco circo per adulti, una lucciola senza mai riposo, dove si respira champagne e le parole divengono musica, il monumento scintillante della New York dei Roaring Twenties.
Tutto appare così importante e vero, ma i diamanti si dissolvono ed i muri diventano invisibili al cospetto dell’anima tormentata del re senza corona di West Egg.
Il nostro narratore su invito ufficiale riesce a entrare nel mondo di Gatsby e carpirne l’essenza, tolti i fuochi d’artificio e le camicie di seta.
“Se la personalità è una serie ininterrotta di gesti riusciti, allora c’era in lui qualcosa di splendido, una sensibilità acuta alle promesse della vita, come se egli fosse collegato a una di quelle macchine complicate che registrano terremoti a ventimila chilometri di distanza.”
La verità, su Gatsby, è che egli ” era scaturito da una concezione platonica di se stesso”, e lui era il Dio di quel paradiso luccicante, ma al contempo ne era schiavo. Schiavo di un passato al quale anelava e al quale disperatamente tendeva ogni centesimo speso, ogni finestra illuminata, ogni nota suonata.
Era schiavo della luce verde al di là della baia, una Sirena che continuamente lo chiamava e stordiva, per la quale andava avanti: “Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una bella mattina…”.
Non importa cosa accada, la luce c’è, è lì, sembra così vicina, è la prova vivente che quel passato non è solo nella nostra mente, ma è in qualche modo reale e non solo un’utopica fantasia: prima o poi la raggiungeremo e lì sarà la pienezza e la pace.
Ma siamo sicuri che è la pace quello che desideriamo? E siamo sicuri che il passato si possa ripetere e divenire il nostro presente oggi, domani, per la vita intera?
“Costruiamo castelli dall’altra parte della baia solo per avere la vista sulla luce, per la certezza della luce, per la certezza che ciò che si è perso non è veramente perduto, si può recuperare, basta lavorare, non ti preoccupare, tu continua a remare…”
Il povero Gatsby di questo viveva e appena la luce perse la sua magia, non appena “il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter sfuggire più”, è stato costretto a fare i conti con la realtà, la quale non è perfetta come quella luce. La nostra mente modifica ed idealizza, per lasciarci la speranza che la vita, una volta arrivati, sia diversa, completa, migliore.
E tutto Nick Carraway lo guarda silenzioso: “Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.”
Teresa