Dopo il suo annuncio, arriva “L’intervista” sulle tematiche come la libertà, il carcere e la giustizia. Per poter parlare di questi argomenti, Bottega di idee ha intervistato Francesco Racchetti, ex Garante dei Diritti dei detenuti di Sondrio, che attualmente guida percorsi di approfondimento con gli studenti, cercando di avvicinarli a un mondo troppo spesso ritenuto eccessivamente distante. Tramite una lettura critica e intelligente della giustizia di oggi, il Dottor Racchetti ci indica possibili soluzioni a diverse criticità del sistema di giustizia italiano, con non pochi riferimenti alla sua esperienza. Detto ciò, non ci resta che augurarvi buona lettura.
Ci può raccontare la sua esperienza? Qual è stato il percorso che l’ha portato a lavorare in questo mondo?
Il mondo del carcere mi ha sempre interessato come tutto ciò che è marginale, anche perché ritengo che questa dimensione riguardi quanto vi è di più profondamente umano. Questo mio interesse ha avuto costante importanza nella mia vita e mi ha portato ad andare in Brasile, dove ho potuto conoscere realtà marginali, dalle favelas al carcere, appunto. Il primo carcere in cui sono entrato, infatti, era brasiliano. Quest’esperienza mi ha molto colpito e stimolato e da lì è maturato il desiderio di conoscere la realtà dei detenuti italiani e fare qualcosa con loro. Nonostante questo, per molti anni non ho avuto nessuna possibilità, finché un’educatrice, poi trasferitasi in altra sede, mi ha proposto di partecipare a un ciclo di incontri sulle diverse culture. Questa è stata la prima occasione che ho colto al volo e con molto interesse. Con diverse domande e molta trepidazione, mi sono dunque avvicinato a questo mondo. E’ stato un incontro molto bello: cinquanta o forse più detenuti che si sono identificati nelle situazioni che descrivevo e che hanno poste molte domande. Ho quindi dato la mia disponibilità a tornare e ho potuto iniziare, come volontario, un rapporto sistematico di collaborazione con la struttura carceraria sondriese e con i vari Direttori che si sono succeduti: una in particolare rimpiango per la sua intelligenza e apertura mentale. Dopo un triennio, ho potuto avviare incontri anche con studenti che, preparati, consapevoli e informati, hanno iniziato a fare visite nelle strutture carcerarie. Questo rapporto si è poi consolidato e ho quindi iniziato un laboratorio di scrittura e riflessione con un gruppo di carcerati. Questo laboratorio si è rivelato molto importante per loro: lì capii che i detenuti avevano davvero grande necessità di dialogo, sebbene questo non sia un bisogno esclusivo dei detenuti stessi ma riguardi tutti, soprattutto nel mondo d’oggi. Nel giro di qualche anno, ho iniziato a sviluppare una certa conoscenza della struttura carceraria – per quanto sia possibile conoscerla non essendo carcerato. Quest’esperienza mi ha coinvolto sempre di più perché al suo interno ho trovato una grande ricchezza umana, che mi ha arricchito a livello emotivo, relazionale, d’ascolto, e che mi ha spronato a proseguire questo percorso.
Percorso seguito (e a oggi non ancora terminato), qual è stata la cosa più importante che lei ha imparato?
La cosa più importante è certamente capire come questo mondo sia assai vicino alla nostra realtà; capire il fatto che tutti potremmo essere lì; capire che, quindi, non deve essere un mondo isolato e distaccato dalla realtà. Nessuno è uguale al suo reato, soprattutto se si stabilisce un contratto umano, se si comunica, se si trasmettono dei valori, delle emozioni, e se si cerca di colmare quelle carenze culturali che spesso connotano i detenuti.
Oggi, in Italia, non sono nuove le polemiche circa la giustizia e le carceri: processi troppo lenti; carceri in sovraffollamento; mancata rieducazione… com’è possibile, secondo lei, porre un freno a questi problemi?
Io sono arrivato alla conclusione, non solo basandomi sulla mia esperienza, ma analizzando questo mondo anche a livello più ampio, che il carcere sia sbagliato. Quello che si dovrebbe fare, quindi, è ripensare una struttura a oggi molto chiusa in se stessa e autoreferenziale, per sostituirla con qualcosa d’altro che possa realmente combattere le devianze. E’ necessario capire che il reo, il colpevole, ha rotto un patto. E vorrei subito chiarire a tutti quelli che accusano i difensori dei diritti dei detenuti di non tenere in considerazione la vittima, che assolutamente così non è. Sono ben consapevole che uno scippo, un furto, possano avere una ricaduta e produrre una violenza psicologica molto forte a colui che lo subisce. Questa ferita – psicologica – colpisce non solo la vittima ma tutta la comunità. Prendere il colpevole e metterlo in carcere e quindi, al di là di tutti i discorsi astratti, umiliarlo è sbagliato. Parlare di “diritti dei detenuti” è una contraddizione in termini: il colpevole viene costretto in uno spazio – fisico e psicologico – a dir poco inumano, subisce una totale deresponsabilizzazione; il suo comportamento viene valutato sulla base della sua passività. Il detenuto buono che prende i “premi”, secondo questa perversa visione, è quello che non crea problemi: il detenuto che chiede di studiare, che vuole responsabilizzarsi, è un detenuto fastidioso. Il risultato è che il detenuto diventa una vittima e si sente tale, e pure con un certo fondamento. Egli quindi non prende consapevolezza delle sue colpe. Il detenuto finisce per sentirsi in credito e non in debito; e pensa: “ho sbagliato, ma tutto questo è inumano, vile e sto pagando anche troppo”. In definitiva: non si può pensare di aiutare una persona deresponsabilizzandola; non si può pensare di reinserire una persona isolandola e privandola delle sue relazioni, cioè proprio di ciò che potrebbe aiutarlo a reinserirsi. Le uniche relazioni che mi è capitato veder continuare nel corso della detenzione sono quelle con la mamma, qualche volta – ma molto, molto meno, – il padre, a volte una sorella, molto meno un fratello. Molto spesso, infine, il detenuto perde la propria moglie, e vede interrompersi il rapporto con i figli. La persona, quindi, viene privata di ciò che potrebbe portarla a un percorso di riflessione, per potersi davvero reinserire. Il “carcere del colpevole”, poi, a me non risulta che aiuti la vittima. Il nostro modo di percepire il carcere come pena – tu hai sbagliato, io ti punisco con un contrappasso basato sul tempo trascorso in carcere – non tutela affatto la vittima, anzi questa continua a vivere un trauma. Un modello a cui potremmo guardare è quello della giustizia restaurativa, che è stato praticato in Ruanda dopo il genocidio e in Sudafrica dopo la fine del regime dell’apartheid, per consentire la ricostruzione di una società lacerata, ma che doveva necessariamente trovare una nuova forma di convivenza. Questo modello non si basa tanto sul far soffrire il colpevole, quanto sul ricucire le ferite che il suo comportamento ha provocato sia nella vittima, sia nello stesso reo, sia nell’intera comunità. In Brasile, nelle carceri minorili – dove è assai frequente imbattersi in giovani pluriomicidi e dove questa forma di giustizia viene utilizzata – non è raro incontrare la mamma del ragazzo ucciso che va a trovare il giovane che l’ha assassinato; e questo risulta molto utile a entrambi. L’importanza da parte del colpevole di ascoltare la vittima è fondamentale per fargli comprendere la gravità del suo gesto e per spingerlo a seguire un percorso di presa di coscienza e di reinserimento, cosa che risulta estremamente difficile in un tipo di giustizia punitiva come quella attualmente in vigore nel nostro Paese. I problemi posti nella domanda non sono, come si può pensare, “problemi tecnici”, ma ineriscono a un modo di vedere. Per poterli affrontare, è dunque necessario intraprendere un percorso diverso, senza giustificare né minimizzare la gravità e le conseguenze dei reati, ovviamente. E’ però necessario uscire dalla logica del far soffrire: non si rieduca facendo soffrire, né umiliando o privando il colpevole, bensì responsabilizzandolo. E’ necessario inoltre scardinare un altro mito: i soggetti pericolosi dentro le carceri, che potrebbero davvero cambiare in peggio la società, a mio avviso non sono nemmeno il 10%. La restante parte è costituita da marginali, alcoldipendenti, tossicodipendenti, ecc… che avrebbero bisogno piuttosto di cure. Altro problema è quello dei costi: ogni detenuto costa allo Stato 150 euro al giorno; di questi solo 22 centesimi vengono investiti nella rieducazione. Questo dato basterebbe a farci mettere in discussione questo modello punitivo. Bisognerebbe, invece, conoscere meglio e non solo astrattamente, questa realtà. Io credo che si possa cambiare direzione, ma è necessario cambiare mentalità. Non sono nuovi decreti che tamponano leggermente la situazione, che possono risolvere ben poco. Per esempio, una percentuale attorno al 30% dei detenuti non dovrebbe essere reclusa, in quanto ha una pena inferiore ai tre anni (si riferisce ai decreti introdotti in conseguenza della sentenza Torregiani emessa dalla Corte Europea dei Diritti Umani); solo che non possono fruire degli arresti domiciliari, poiché il domicilio, banalmente, non ce l’hanno. Altro dato interessante è quello che riguarda gli stranieri: il 30% dei detenuti sono stranieri, condannati però per reati lievi. Mentre solo l’1% degli ergastolani, perlopiù colpevoli di omicidio, sono stranieri. Pensando al Brasile, lì vi sono 700mila detenuti, quindici volte quelli italiani. Quest’incredibile numero è aumentato vertiginosamente negli ultimi quindici anni, come conseguenza delle politiche repressive, che colpiscono soprattutto i giovani neri delle favelas e questo non può certo essere un caso. Detto ciò, sarebbe necessario approfondire certi aspetti del Codice Penale, rivederlo, magari modificarlo. Una grande parte dei detenuti è infatti costituita da tossicodipendenti, che scontano anche molti anni per una serie ripetuta di piccoli reati connessi alla loro situazione e fondamentalmente conseguenti alla criminalizzazione della droga. Legalizzarla eviterebbe a tanti tossicodipendenti di dover ricorrere ad attività criminali come il piccolo spaccio e salverebbe vite umane, consentendo un maggior controllo delle sostanze assunte.
Inaccettabile è, infine, pensare che in un Paese che dovrebbe essere civile alcuni processi superino i vent’anni: la persona che va in carcere, dopo un periodo di tempo così elevato, è profondamente diversa da quella che aveva commesso il reato. Bisognerebbe assicurare dei processi veloci, snellendo la burocrazia processuale.
Problema enorme della giustizia italiana è la recidiva. Ci aiuta a fare un po’ di chiarezza attorno a questo tema?
Partiamo dai dati: il tasso medio di recidiva sfiora il 70%. Se però le persone condannate si trovano a essere inserite in circuiti, in percorsi, dove le relazioni non sono troncate, dove si punta sulla formazione e sul tentativo di far apprendere un lavoro ai detenuti, questo tasso decresce a meno del 20%. Il detenuto, in un sistema punitivo, un lavoro non lo trova, è incattivito, ha perso le sue relazioni, e torna, quasi naturalmente e conseguentemente, a ripetere il reato. Nei miei anni d’esperienza, solo un ragazzo ha conservato lavoro, amici e relazioni. Ma uno. Questo carcere, quando è punitiva distrugge la vita del carcerato, ed è purtroppo assai raro che ciò non succeda.
Ci può illustrare quali afflizioni e quali gioie ha instillato in lei l’esperienza da Garante dei Diritti dei Detenuti? E, sulla base della sua più che decennale esperienza, consiglierebbe questa professione a giovani volonterosi?
Non rimpiango ciò che ho fatto, poiché quest’esperienza è stata molto arricchente. Il problema, casomai, sta nel fatto di come io ora possa utilizzare quest’esperienza. Chiaramente non si fa il Garante per una gratificazione, cui si accennava nella domanda, essendo un’attività che costa fatica e provoca afflizione. Negli ultimi anni, per quanto la rete dei Garanti si sia allargata, si è assistito a una chiusura dell’amministrazione nei confronti di questo ruolo, che mi pare oggi del tutto svuotato. Proprio per questo non consiglierei a nessuno di assumerlo. Diverso però è il discorso del consigliare ad altri di non ignorare questo mondo: pur pensando che questa realtà sia profondamente sbagliata e irriformabile – e io ci ho provato per anni, (ride) -, è assolutamente necessario trovare soluzioni alternative, e sollecitare la cultura generale a essere attenta su questo mondo. Ciò che si può fare è attivare e sollecitare una riflessione partendo da elementi di conoscenza, cosa che personalmente provo a fare intervenendo nelle scuole. Altro aspetto è la meritocrazia, concetto oggi assai in voga e a mio avviso assai sbagliato: la meritocrazia implica un senso di competitività che porta in una direzione potenzialmente disastrosa. Ciò che invece bisognerebbe fare è rivolgere la propria attenzione ai marginali, ai diversi, a quelli che, compiuto un errore, non riescono più a uscirne. Io vedo ragazzi delle favelas che, pur con esperienze assai negative, entrando in percorsi alternativi, diventano a loro volta protagonisti di educazioni di altri giovani. Questo mi porta a dire che bisogna avere fiducia nell’essere umano. Il reinserimento, la rieducazione, il combattere la recidiva, riconduce tutto a un problema di base: si ha fiducia nell’essere umano oppure no? Io credo che alla fine premi di più mostrare fiducia a qualcuno che dopo dimostrerà di non averla meritata piuttosto che non darla a tanti che invece avrebbero potuto cambiare profondamente. Credo che sia importante dire cose positive e che alla base di ogni critica ci debba essere un’alternativa valida, una strada diversa per uscire da queste contraddizioni.
Una strada diversa che noi, da tempo, stiamo provando a indicare.
Bottega di idee