Arianna è una ragazza di 16 anni. All’età di sette anni, nel 2008, le viene diagnosticato un astrocitoma pilocitico, il tumore a più favorevole prognosi tra tutti gli astrocitomi. Operata due volte, oggi ci racconta la sua storia, e di come sia radicalmente cambiata da quando è entrata in contatto con la compagnia del bullone e l’associazione B.LIVE (di cui trovate i contatti in fondo all’intervista). Oggi, tramite un dialogo profondo e una vera, importante, esperienza di vita, Bottega di idee, Arianna e il Bullone stesso (che ripubblicherà integralmente l’intervista sul proprio sito), vogliono lanciare un grande messaggio di positività. Perché, come sarà Arianna stessa a raccontarvi, trovare nella malattia fonte di gioia non solo è possibile teoricamente, ma anche realizzabile concretamente. Perché la malattia, come Arianna ci racconta, è stata la sua, migliore, amica.
Cos’è B.LIVE? Com’è nato e quali obiettivi si pone? Quali requisiti servono per far parte di questa compagnia?
B.LIVE è un’associazione nata con un principio di unione con un gruppo di ragazzi con esperienze non facili (per esempio HIV, problemi psichici e di depressione, malattie oncologiche gravi) facendo attività e percorsi che li facciano andare oltre la malattia. L’intento che si pone è quello di riunire i ragazzi e aiutarli a superare i problemi non trattandoli come problemi: è un modo di condividere senza tener conto delle diversità, perché ognuno di noi ha una sua storia personale, che viene rispettata e accettata da tutti. Solo un anno e mezzo fa mi sono unita a questa associazione, e da quando ne faccio parte ho notato un’evoluzione in me, un percorso di crescita molto importante, che mi ha portato a crescere. Fra l’altro, ha reso molto diverso il mio rapporto con il pubblico, con gli “altri”: In B.LIVE, infatti, si è obbligati a liberarsi della timidezza: ognuno ha un proprio ruolo all’interno di B.Live, e tra interviste e spettacoli, ciascuno di noi deve riuscire a trovare il modo di relazionarsi con il pubblico, spogliandosi, come dicevo prima, della propria timidezza. Ma forse è meglio chiarirvi chi siamo: B.LIVE è un progetto nato nel 2012 che coinvolge ragazzi con gravi patologie croniche, I B.LIVERS, in attività sviluppate con aziende e professionisti di vari settori. Due anni fa, insieme ad alcuni giornalisti del Corriere della Sera, in particolare Giancarlo Perego che ne è poi diventato il direttore, questi ragazzi hanno trovato un modo di esprimere i propri sentimenti in questo nostro giornale mensile, chiamato appunto “Il Bullone”, che attiene a sé temi svariati – anche se ovviamente legati a patologie giovanili gravi. Questo mensile, inizialmente di 12 pagine, oggi ne ha 32, e ci viene stampato gratuitamente in 3500 copie da Corriere dello Sport, che così facendo ci aiuta a a diffondere al meglio il nostro pensiero.
Raccontaci della tua esperienza sia personale sia collettiva – in riferimento alla comunità – e in che modo hai affrontato la malattia.
Per quel che riguarda me, ho iniziato a entrare nel giro degli ospedali e a capire cos’è veramente importante nella vita nel 2008, all’età di sette anni, passando dal Manzoni di Lecco (fui ricoverata il 1° ottobre 2008, e il 3 ottobre, data la gravità della cosa, ero già in sala operatoria), dove ho avuto la fortuna di essere operata dal miglior staff medico a disposizione, a seguito della quale sono stata spostata in pediatria, per poi tornare a casa felicissima, dopo un mese. Passati 6 mesi, un controllo non è andato come speravamo. Così, nel 2009 ci siamo spostati al Besta di Milano. Qui la mia ripresa fu ancora più rapida: operata un’altra volta, dopo 15 giorni ero già a casa. Dopo una serie di ottimi controlli, a marzo del 2010, sono finita all’Istituto Tumori di Milano, dove ho svolto un anno e mezzo di chemioterapia, di cui ho fatto dieci sedute. Questo periodo per me è stato molto difficile: è stato un percorso di guarigione lungo, accidentato e difficoltoso. Svenimenti, vomiti, e ambiente, insomma, non aiutavano. Lì, però, ho trovato una possibilità di comprensione maggiore rispetto agli altri ospedali e ho potuto relazionarmi con madri, padri e miei coetanei. Leggendo il libro “Vado a farmi la chemio e torno”, di questo ragazzo – Paolo Crespi -, che oggi è tra i padri fondatori dell’associazione B.LIVE, e grazie alla mia interazione con lui, ho iniziato ad affrontare con grinta la mia malattia. Tuttora sento ancora parenti e ragazzi che, come me, ce l’hanno fatta. Per quanto riguarda la malattia io non mi vergogno a dire che un po’ mi sento “in colpa” di essere guarita, poiché di tutti i ragazzi che conoscevo ce l’abbiamo fatta in tre. Questo avercela fatta mi carica di responsabilità, anche se un po’ mi sento in colpa, come se fossi una privilegiata; l’altra faccia della medaglia è però il sapere di rappresentare anche chi non ce l’ha fatta come me. La mia malattia, come dicevi tu nell’introduzione, è denominata astrocitoma pilocitico e un suo piccolo residuo è ancora presente nel terzo ventricolo sinistro del mio cervello. Ci tengo a dire che l’aveva rinominata “astrocit”, proprio per riuscire a vederla come una “compagna di viaggio”, come un’amica, e non come la fonte dei miei mali.
“Il Bullone” è in qualche modo discendente dall’associazione B.live. Che impegno richiede far parte di questa associazione?
“Il Bullone” è il mensile su cui scrivo ed è figlio, se così si può dire, dell’associazione B.LIVE. E’ nata un anno e mezzo fa e tutti quelli che fanno parte di B.LIVE collaborano alla stesura di questo giornale, che, come già detto, è un mensile che ci aiuta ad esprimere noi stessi ed è fondamento dell’intento che aveva. “Essere, credere, vivere” è il nostro motto. Per quanto riguarda i vari incontri settimanalmente abbiamo la possibilità di ritrovarci spesso. La riunione di redazione è intorno al 27 di ogni mese e si decide chi pubblica cosa. Molto spesso queste riunioni diventano occasioni per spronare i ragazzi., offrendo loro grandi sfide come appunto la stesura di articoli. Io sono l’unica a non essere di Milano o provincia, e ciò per me è davvero importante, tant’è che io credo fortemente nella mia associazione e in quello che si può realizzare facendone parte.
La compagnia del bullone (per usare il titolo del vostro libro) è solita mandare messaggi di positività, e la nostra rubrica – molto ma molto più in piccolo – vuole provare a far capire che i giovani possono cambiare il mondo. Vuoi lanciare un messaggio in questo senso?
Nulla succede per caso, nulla è impossibile. Non si può accettare un discorso da parte di un adulto del tipo “tu non puoi fare niente, sei troppo piccolo…”. Io credo nelle mie possibilità: le forze che impiego per tentare di produrre qualcosa, se daranno dei frutti, porteranno a quella che io amo definire “torta di compleanno” – concetto che personalmente lego alla sorpresa. Quando si ricevono torte di compleanno, spesso non si conoscono le mani che l’hanno prodotta, eppure ci si gode il gusto di questa torta. Questo esempio è un ossimoro, se così si può dire, con quest’esperienza: una torta di compleanno non sarà mai disprezzata. Quello che voglio dire, in sintesi, è che il mio lavoro e il mio entusiasmo, spesso, non sono legati a un risultato sin da subito visibile, quanto piuttosto a una dimensione di fede e di fiducia nei confronti della mia utilità al prossimo. Tornando alla domanda, secondo me i giovani devono esprimere liberamente il loro pensiero e non farsi demoralizzare, liberandosi anche del pensiero degli adulti. I giovani possono cambiare il mondo e non si devono lasciar demoralizzare da tutte le critiche che piovono su di loro. I giovani, differentemente dagli adulti, anche tra i banchi scolastici, sono più positivi. Il giovane è per predisposizione mentale improntato alla sfida, all’affrontare i problemi e le critiche che gli vengono mosse, ad andare contro le opinioni comuni. Io personalmente definisco il giovane un “sognatore scaltro”: perché tutti i giovani hanno un po’ la testa fra le nuvole e che, magari, nonostante esperienze negative, non si lasciano infrangere i sogni. Il giovane è però anche scaltro perché riesce a mantenere il suo sogno senza svelarlo totalmente, condividendolo e mantenendolo con possessività. Personalmente, ho fatto esperienza di ciò: il mio più grande sogno era incontrare Gigio Donnarumma, portiere del Milan oggi molto criticato dai suoi stessi tifosi, e, grazie a B.LIVE, ci sono riuscita.
Personalmente, credo che quella che avete appena letto, sia un’esperienza davvero significativa, che possa davvero essere maestra di vita. Maestra di vita e maestra di sogni. Perché, ma questa è solo una considerazione personale, è la vita stessa a essere un sogno. Una malattia che è diventata una migliore amica. Cosa può essere, questo, se non un bellissimo, per quanto difficile, sogno? E allora, giovani, sognate. Sogniamo. Insieme. Sogniamo un mondo migliore.
Grazie.
Bottega di idee
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