L’intervista

Mira Andriolo è un’attrice e regista di teatro, che da anni pone al centro delle sue attività la pedagogia teatrale o pedagogia dell’arte come strumento educativo. Da Giorgio Strehler, Walter Pagliaro, Carmelo Bene a Luca Ronconi ci racconta i più importanti incontri della sua vita e della sua carriera teatrale, di come il teatro abbia segnato la sua vita, e come quest’arte possa accompagnare e sostenere la crescita e la formazione della persona. In un dialogo ricco e approfondito, Mira ci riporta alle radici del teatro, al suo senso più profondo, e di come sia traducibile concretamente nella realtà di oggi, raccontandoci dell’associazione culturale da lei fondata – Spartiacque – e del suo progetto per la divulgazione dell’arte del teatro e la formazione dei giovani: “Teatro Incontro”.

Come sei arrivata al teatro?
Come io abbia iniziato è cosa piuttosto comune. Ho iniziato a fare teatro a 12 anni al Centro Teatro Attivo di Milano, condotto da Nicoletta Fanfani, insegnante di recitazione, e Ottavio Fanfani, che allora era attore del Piccolo Teatro di Milano. Con loro ho iniziato a frequentarne i corsi; la cosa mi ha entusiasmato molto, al punto che a 16 anni decisi di provare a entrare maggiormente in questo mondo che tanto m’affascinava. Avevo a quell’epoca un rapporto difficile con la scuola e sentivo il teatro come un luogo di rigenerazione, uno strumento indispensabile per l’elaborazione del pensiero. Al Piccolo Teatro di Milano avevo visto spettacoli che mi avevano toccato in profondità, come la “Tempesta” di Shakespeare con Giulia Lazzarini nella parte di Ariel e la regia di Giorgio Strehler, che all’epoca faceva provini anche per ragazzi molto giovani, così mi decisi a propormi per uno di questi. Caso ha voluto che Valentina Cortese, che ricevette la mia telefonata, al posto di Strehler mi facesse parlare con Walter Pagliaro, allora suo giovane assistente. Lui mi fissò un incontro, nel quale, dopo aver sondato la serietà del mio intento, mi sconsigliò “la via dei provini” in cui l’attore rischia di esser valutato alla stregua di – “un catalogo di carta da parati” – proprio così mi disse! E, vista la mia giovane età, mi suggerì anche di finire bene gli studi e di frequentare, in seguito, una vera scuola di teatro. Così, due anni dopo, 18 enne, per aver maggiori possibilità di riuscita mi presentai a tre esami d’ammissione: alla scuola Filodrammatica, alla scuola del Piccolo Teatro di Milano e all’Accademia Nazionale Silvio D’Amico di Roma. Con mia grandissima gioia, fui presa in tutte e tre le scuole di teatro. Decisi per l’Accademia Silvio D’amico, dato che era nazionale ed era l’unica riconosciuta dal Ministero dell’istruzione il cui titolo valesse da laurea. L’Accademia, a quel tempo, era diretta da Aldo Trionfo, grandissimo regista italiano di teatro. In Accademia, Lorenzo Salveti, mio insegnante di recitazione; Paolo Terni, per la storia della musica; e le attrici Marisa Fabbri e Franca Nuti, furono le persone più importanti per la mia formazione.
Dovete sapere che il teatro di fine ‘800 primi del ‘900 fu segnato da due grandi personalità che rivoluzionarono l’approccio al lavoro dell’attore: Konstantin Stanislavskij e Bertolt Brecht, che furono anche due straordinari pedagoghi teatrali e misero a punto due metodi diametralmente opposti: il primo ha approfondito un metodo recitativo per così dire naturalistico, con il quale si intende la capacità dell’attore di mimesi e catarsi, nel senso della ricerca della verità del personaggio attraverso l’immedesimazione; il secondo, invece, la capacità critica dell’attore nei confronti della realtà e quindi la sua capacità di straniamento. Brecht diceva  che l’attore dev’esser capace di guardare le cose conosciute come fossero sconosciute e le sconosciute come fossero conosciute: questo perché la sua capacità di osservazione del mondo, l’unica indispensabile in questo mestiere,  sia piena.
Marisa Fabbri era un’attrice più brechtiana, una vera intellettuale, la cui impostazione di lavoro – particolarissima – ha inevitabilmente risentito di Luca Ronconi (regista teatrale), con il quale Marisa ha condiviso moltissimi lavori. La Fabbri mi ha lasciato il senso profondamente politico e sociale del teatro.
Franca Nuti, invece, aveva un’impostazione più stanislavskijana: cercava nel suo lavoro autenticità e commozione, e mi ha lasciato il senso della pietas tanto caro ai Greci.
Dalla sintesi delle loro due impostazioni ha preso forma, quasi inevitabilmente, la mia: da una parte, non posso non vedere nell’arte del teatro pura emozione, pura catarsi; dall’altra, la ricerca, lo studio, l’ascolto, l’osservazione della realtà, il guardare ai personaggi come convenzioni letterarie, portatrici di pensiero e visioni del mondo.
Finita l’Accademia, decido di andare all’estero per acquisire competenze sul linguaggio cinematografico e scelgo di studiare da auditrice straniera alla Film und Fernsehen Akademie di Berlino. E’ stato in quel periodo che ho potuto frequentare lo Schaubuhne seguendo le produzioni Peter Stein (regista tedesco) che allora lavorava con Botho Strauss (scrittore e drammaturgo) e a Wuppertal la grande coreografa Pina Bausch. Tornata dalla Germania e diplomata all’Accademia, cominciai a lavorare in una produzione teatrale su Antonine Artaud, e qui feci il terzo incontro che decise la mia carriera e la mia visione del teatro: l’incontro con Carmelo Bene. Con Bene feci un provino sulla Divina Commedia che mi diede l’opportunità, una volta presa, di far parte di diverse sue produzioni, devo dire anche in modo molto frustrante per una giovane attrice che aspira al palcoscenico. Frustrante perché spesso la sua modalità di lavoro prevedeva che lui lavorasse con moltissimi attori, per tutto il periodo di prove, regolarmente assunti, ma che poi non sarebbero andati in scena. E questo fu il mio destino con lui.
Essendo Bene autore, attore e regista dei suoi spettacoli, usava assegnare le parti dei vari personaggi che poi avrebbe interpretato lui stesso, per poterne curare la regia.  Accettai questa pratica crudele, per dirla con Artaud, perché mi rendevo conto che era un’opportunità straordinaria per imparare da un grande maestro della scena italiana. Un grandissimo artista decisamente fuori dal coro. Lavorare con lui mesi e mesi, dalla mattina alla sera, fu davvero una scuola di recitazione all’ennesima potenza. Da lui, quindi e per forza di cose, ho preso davvero tanto. Mi viene per esempio in mente un suo grande insegnamento quando continuava a ripetere a noi attori in erba che la prima cosa che deve fare un attore è “farsi lo sgambetto” – proprio così diceva -, intendendo due cose: primo, il non prendersi mai troppo sul serio; secondo, il ricordarci che l’attore è per sua natura un mezzo, un medium perché le voci del Mondo e degli Dei possano farsi udibili tramite lui e che quindi la sua virtù principale doveva essere il togliersi di mezzo! Così gridava nei suoi microfoni appena appena sentiva in un attore un eccesso di ego: togliti di mezzo!  Lui infatti sosteneva che l’attore “disturbasse” il personaggio, e, soprattutto, lo spettacolo. E’ per questo che nei suoi spettacoli spesso non rinunciava a recitare al leggio e alla lettura dichiarata, perché non ci si potesse appropriare di nulla e si mantenesse la giusta distanza tra l’interprete e il testo. Paradossalmente, lui, che per altro era un iper-egoico (ma lo era volontariamente, talmente tanto da diventare maschera, scrittura vivente), inevitabilmente mi ha lasciato in eredità la consapevolezza che il teatro è arte e che l’arte non sopporta esibizioni, che l’espressione artistica, creativa e creatrice, dev’essere libera e non ha nulla a che vedere con egocentrismi ipertrofici, coltivazioni narcisistiche e fameliche ambizioni. Il teatro non è rappresentazione di sé! E’ spazio di accoglienza delle voci del mondo che emergono attraverso la propria voce e il proprio corpo. E’ il luogo della visione e dell’accadimento di un evento che ha la forza trasformatrice di ricreare il mondo. Personalmente, ho dedicato tutta la mia vita e la mia carriera artistica alla realizzazione di questo nucleo vitale di pensiero attorno all’arte del teatro. E non posso che sottoscrivere quel che Hetty Hillesum sosteneva. Questa donna straordinaria che ci ha lasciato parole luminose nei suoi diari dal campo di concentramento, offriva volontariamente la sua persona, il suo stesso corpo come campo di battaglia, un luogo dove ospitare i conflitti del mondo, per farli dialogare e pacificare, dove maturare un altro modo di stare al mondo. Il modo della con-passione che è il grande insegnamento del teatro. E’ quindi necessario lavorare tanto su se stessi: il nostro corpo deve essere sede di tutte le paci – così diceva Santa Margherita da Cortona, intendendo quella fisica, psichica, spirituale… – Il teatro è lo spazio simbolico della gestione creativa del conflitto della comunità: in questo senso è da sempre un’arte sociale, popolare, per tutti ed è l’unica arte soprattutto in questo momento storico – nell’era della tecnologia e delle realtà virtuali – che mette al centro dei processi relazionali e cognitivi il corpo dell’essere umano, questione, come avrai capito, che ritengo fondamentale.  Il teatro, mette al centro la relazione a partire dal corpo fisico nella sua vulnerabilità. Ed è proprio la vulnerabilità il nucleo fondativo di una comunità, tutti uguali nell’essere vulnerabili e quindi tutti bisognosi di aiuto e solidarietà reciproca, mai senza l’altro.
Per questi motivi, penso che il teatro sia un’arte che non morirà mai.

Tanti vedono nel teatro una realtà elitaria. Da quel che affermavi in precedenza, sembrerebbe che tu la veda in maniera totalmente diversa. Vuoi specificare meglio il tuo pensiero?
Personalmente non trovo che il teatro sia elitario, che la musica classica sia elitaria, che la poesia sia elitaria. Per me la cultura è vita, è coltivazione di sé e del territorio in cui viviamo, cura delle relazioni e delle persone, custodia della gioia, che non vuol dire che siamo sempre felici ma che riconosciamo che anche il dolore ci dice di essere vivi. E questo è per tutti, ed è bello e giusto che sia così.

Ci parli dell’associazione culturale Spartiacque? Dove e come è nata?
Spartiacque nasce dall’incontro di tre persone. La sottoscritta; Don Abramo Levi, eccezionale uomo di cultura, teologo ed esegeta biblico vissuto a Sondrio; e Natascia Micheli, docente di filosofia. Abramo Levi era un vero sapiente, sapeva aprire orizzonti e coltivare pensiero all’aria aperta. L’ho incontrato in occasione di un progetto che avevo curato per il Piccolo Teatro di Milano, “La voce scritta”. Si trattava di spettacoli-conferenze con autori contemporanei significativi come Claudio Magris, Vincenzo Consolo, Giuliano Scabia. Un incontro l’avevo dedicato alla filosofa Roberta De Monticelli che aveva pubblicato un libretto di poesie dal titolo Le preghiere di Ariele. Dato Levi ne aveva curato la postfazione, che mi colpì per profondità e bellezza, volerlo conoscere di persona. L’incontro ha ribaltato e riorientato completamente la mia vita, al punto che mi sono trasferita in Valtellina. Don Abramo a quel tempo stava seguendo Natascia, che nel frattempo si stava laureando su Enzo Morpurgo (psichiatra psicoanalista milanese) con Silvia Vegetti Finzi. Scorgendo fra noi forti affinità, ha voluto fortemente che ci incontrassimo e cominciassimo a lavorare insieme. Don Abramo aveva a cuore i giovani di questo territorio e, prima di morire, ci raccomandò di lavorare per loro. Natascia e io raccogliemmo l’invito – anche se farei meglio a dire il gentile e fermo comando – dedicandoci alla nascita dell’associazione Spartiacque, che prende il nome da un libro di Levi, in sua memoria. Secondo le nostre intenzioni, l’associazione sarebbe diventata luogo di formazione e incontro per i giovani valtellinesi con speciale attenzione e cura verso i più segnati dalle difficoltà della vita. Natascia, insegnando nelle scuole della provincia di Sondri, aveva bene in mente i bisogni più forti degli studenti e della scuola stessa. Abbiamo potuto cominciare la nostra attività grazie all’appoggio di Don Valerio Modenesi che ci diede la sede che tuttora è sede di Spartiacque, in via Cesare Battisti. Siamo partite da un laboratorio teatrale interculturale per l’integrazione sociale con i giovani migranti che vivono nella nostra città e lo avevamo chiamato “Raccontami chi sono”. A seguire abbiamo strutturato un doposcuola permanente che potesse offrire sostegno e rimotivazione allo studio. Erano quindi già emerse chiaramente le due linee guide della mission della nostra Associazione: Scuola e Teatro. Insomma, accompagnare i processi dell’apprendimento e della crescita a partire da una pedagogia dell’arte.
Dopo poco tenemmo un laboratorio di filosofia e teatro, che fu la nostra prima sperimentazione concreta per mettere a punto la visione e il metodo con cui Spartiacque intendeva aprirsi al territorio. Ma facciamo un passo indietro, potrebbe essere utile. La prima volta che sono arrivata a Sondrio era il 2001. Abramo Levi mi era venuto a prendere alla stazione ferroviaria. Sapendo della mia attività teatrale mi propose di venire a tenere dei laboratori teatrali per i giovani qui in valle.
Così mi fece conoscere a sua volta dei suoi cari amici, che poi si rivelarono fondamentali per il mio lavoro qui a Sondrio: Maria Donati, allora presidente del Centro Servizi per il Volontariato, e Francesco Racchetti – da noi intervistato quest’estate, n.d.r. -, anche lui insegnante di filosofia e impegnato nel gemellaggio di Sondrio con Sao Mateus del Brasile. Sono stati i miei mentori, e penso sempre a loro con infinita gratitudine. Loro furono i promotori e gli organizzatori del mio primo laboratorio di teatro nel 2004 per i giovani valtellinesi e sempre loro con grande convinzione mi presentarono in seguito alla Fondazione Gruppo Credito Valtellinese che, occupandosi anche di scuole, riconobbe nella proposta di un mio progetto di teatro per le scuole della provincia, una risorsa interessante.
Nasceva così Teatro Incontro.

Vorresti spiegarci, prima di concentrarci su Teatro Incontro, in termini più pratici, come si è declinato, prima, ed evoluto, poi, Spartiacque?
Anzitutto, il nome. Io e Natascia abbiamo pensato a “Spartiacque”, dato che, come ho già detto, è il titolo di un libro di Don Abramo Levi. Se poi si pensa al significato della parola, lo spartiacque è una precisa zona geografica situata sulla cima di una montagna: precisamente, è quel punto in cui si raccolgono le acque che vi sostano, prima di scendere in direzioni diverse. E così volevamo che fosse questa associazione: un luogo dove sostare, riposare, ove si facesse chiara la direzione da seguire e i terreni da irrigare, anche dentro noi stessi.  Oltre al riferimento a lui, alla sua opera e alla sua persona, ci piaceva quindi anche il significato stesso del nome nei suoi auspici, l’immagine che questa parola evocava, le diverse direzioni che l’acqua avrebbe potuto prendere… insomma, poteva ben tenere insieme le diverse inclinazioni dell’anima e i desideri di chi l’avrebbe condivisa e abitata con noi. Accogliere; raccogliere; dare peso, misura, valore; indicare, senza mai voler indirizzare, spingere, forzare. Queste, le prime intuizioni. Diceva Abramo – “non si può tirare un filo d’erba per farlo crescere” –. Formarsi all’ascolto, insomma, educare nel senso etimologico della parola, di accompagnare fuori, all’aria aperta e sottile di alta montagna, per scoprire la sorgente delle nostre peculiarità e dei nostri bisogni più profondi, riconoscendone le preziose indicazioni per un percorso fecondo.
Scriveva Abramo Levi: “…ma l’acqua non viene dal mare ma dalla sorgente verso la quale essa stessa si dirige… l’acqua che indugia sulle sommità curve del mondo e a decidere la direzione che prenderà non è che un brivido di vento”. L’acqua è quel nutrimento vitale che per noi è la cultura quando la si intende in termini di vita e non di potere. Quindi, passando a un piano concreto del discorso, l’associazione ha seguito e sviluppato la sua attività secondo le due linee operative di cui ho parlato sopra: lo studio e la pedagogia dell’arte del teatro, intendendolo come metafora dell’educazione. Queste due aree operative hanno dato vita da una parte al progetto “Extrascuola”, che il Comune di Sondrio prima ha avviato con noi e poi ha condiviso con altri soggetti, come l’oratorio cittadino di San Rocco; dall’altra al progetto “Teatro Incontro”, cioè corsi di teatro per gli istituti superiori di secondo grado, finanziato e promosso dalla Fondazione Credito Valtellinese, il Centro servizi per il volontariato La.vo.p.s e oggi sostenuto dall’associazione per lo spettacolo dal vivo Alpinscena. Ultimamente, grazie all’apporto del vice presidente dell’associazione Ernesto Pedrazzoli, che ha dato in concessione a Spartiacque un grande campo in località Agneda a Sondrio, è nato un terzo progetto che apre una nuova area di interesse: l’ambiente, per cui abbiamo dato vita a degli “Orti sociali”, ma sarebbe in questa sede troppo lungo spiegare in cosa consista.

Allora chiudiamo questa lunga e interessante intervista con una domanda molto importante, difficile e accattivante nello stesso tempo: cos’era Teatro Incontro ieri, cos’è oggi e cosa sarà domani?
Di come tutto è cominciato ho già detto, eccezion fatta per il proto-laboratorio avviatosi nel 2004, nel quale ho avuto una grande fortuna: alcuni giovani di allora hanno iniziato – e continuato – a crescere e lavorare con me. Parlo ovviamente di Lisa Tam, operatore teatrale ma anche straordinaria percussionista e grande educatrice, o di Andrea Novellino, fine filosofo e letterato, che invece ha conosciuto i ragazzi che frequentano il nostro doposcuola. E ce ne sono molti altri con cui collaboro ma dei quali ora non vi parlo per ragioni di tempo… La loro amicizia, fedeltà e preziosa collaborazione è per me il frutto più bello e felice della mia attività degli ultimi dieci anni in Valtellina.
Teatro Incontro è cominciato dunque trasportando la mia lunga esperienza teatrale in Valtellina: ho cominciato da sola andando a fare teatro nelle scuole, in orario curricolare. Inizialmente andavo soprattutto in classi particolarmente difficili, per portare una pratica che potesse dare un contributo metodologico circa i problemi legati all’apprendimento. Sono stati anni di semina. Presto mi ha affiancato Elena Riva, attrice sensibile formata alla scuola di Jurij Alschitz. E’ stato un incontro fecondo e insieme abbiamo potuto allargare il nostro raggio di azione. Dall’attività in classe, abbiamo pensato, con Cinzia Franchetti, responsabile del progetto per la Fondazione Credito Valtellinese (la persona a cui dobbiamo l’esistenza del progetto Teatro Incontro e che lo ha reso, per sua lungimiranza, quello che è oggi), abbiamo pensato che fosse arrivato il momento di aprire un vero laboratorio teatrale permanente pomeridiano a cui avrebbero avuto accesso tutti gli studenti interessati provenienti dai diversi Istituti scolastici. Per la verità abbiamo aperto inizialmente 5 laboratori: uno a Sondrio, uno a Bormio, uno a Tirano, uno a Morbegno e uno a Chiavenna. Teatro Incontro diventava così un progetto di educazione al teatro provinciale. Intanto, nella città di Sondrio, l’amministrazione comunale inaugurava finalmente il tanto atteso Teatro Sociale. Durante questi anni di attività ho incontrato docenti piuttosto diffidenti verso la pratica teatrale. Altri, invece, li ho trovato davvero fortemente motivati: non hanno solo colto pienamente gli intenti del progetto ma l’hanno anche sostenuto con tutto il loro impegno.  Penso a Vittorio Lo Verso a cui va tutta la mia gratitudine per l’impegno profuso, ad Angela Tarabini, a Valeria Grassi, a Claudia Colombo, a Giordano Morcelli, alla prof. Micciché, provenienti da Sondrio, Tirano, Bormio, Chiavenna, e uniti nel loro straordinario supporto. Quanti professori hanno davvero a cuore il loro lavoro! Bisogna dirlo in tempi in cui non si fa altro che parlare di cattiva scuola. La scuola la tengono in piedi queste persone, con la loro abnegazione, la loro passione, i loro valori civici, nonostante tutto. Tutti loro hanno stimato il nostro lavoro, ma, cosa molto più importante, hanno riconosciuto nella pratica del teatro uno strumento pedagogico di altissimo valore. Tanto che nel 2016 al Professor Lo Verso è venuta l’idea di creare una rete di scuole per la promozione del teatro pedagogico. E’ nata una rete, il Centro di Promozione del Teatro Pedagogico della provincia di Sondrio, che a tuttoggi è impegnata a sostenere Teatro Incontro, oltre a tutte le altre iniziative che possano arricchire la cultura teatrale nella nostra Valle. Le cose belle non si fanno mai da soli: senza il supporto dei professori e di voi studenti non ci sarebbe nulla di tutto questo.
Oggi, con una formula ben strutturata, arriviamo facilmente alle duecento adesioni. Essendo organizzati su una rete di scuole, che va da Bormio a Morbegno, cerchiamo di diffondere il senso della collettività, del valore del famoso bene comune, ché i giovani possano contribuire a far crescere vivacità culturale e far sentire la loro voce. Il lavoro laboratoriale dei ragazzi infatti culmina in uno spettacolo per tutta la comunità: ciascun laboratorio contribuisce ad un’opera unica prendendosi cura della propria parte. Questa modalità ci sembra significativa in un mondo che ha bisogno di sviluppare capacità cooperative e sinergiche. In un’ottica che rinunci, del tutto, a ogni sorta di campanilismo. Quel che Teatro Incontro sarà domani è più una speranza, che una certezza. E la mia speranza è di trovare sempre più spesso ragazzi come sono stati Lisa e Andrea o come te oggi, interessati a far proseguire e migliorare questo progetto che reputano importante. Il mio grande sogno è quello di lasciare le redini di questo nostro progetto a giovani capaci, perché Teatro Incontro possa continuare. Personalmente, spero che Teatro Incontro – quando non sarà più gestito da me – potrà insegnarmi cose che non ho già appreso, musiche che non ho ancora ascoltato, e possa continuare a testimoniare e trasmettere amore e passione per l’arte, per la cultura e per l’educazione.
Anche fosse del tutto un’utopia, per me l’educazione rimane l’arte più straordinaria del mondo.
Credo che le persone abbiano bisogno di educarsi, di aprire sempre nuovi orizzonti di senso, da percorrere con la fiducia piena dell’artista che, non sapendo dove posare il piede, in ogni caso risponde ai richiami dell’anima e del futuro, di ciò che deve venire e che verrà, si fida del suo intuito e così facendo – per citare la poesia di Machado – apre cammino. Ma, questa, è un’altra storia.

Bottega di idee

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