La settimana del ricordo continua. Al suo quinto giorno, il tema viene appena sfiorato, sulla linea quasi onirica già tracciata da Valeria nell’articolo del giorno prima. In una storia inventata da lei, Mariana, con un esperimento simile a quello che noi facemmo qualche mese fa, ci parla di Rebecca, e del suo particolarissimo legame con il mondo della scrittura. Questo scritto, dove è il non detto a prevalere, carica di tensione e significato lo scottante tema del ricordo, e, nello specifico, dei ricordi personali, intimi, che più toccano il nostro animo. Mariana, quindi, ci conduce dentro di noi passando al di fuori di noi, raccontandoci la storia di Rebecca con una precisione chirurgica. Precisione chirurgica del suo linguaggio, e precisione chirurgica del colpo ci arreca: un colpo, secco e preciso, al cuore.
Rebecca è una ragazza incredibilmente semplice, maniacalmente schematica: possiede infatti almeno una decina di quaderni, su ognuno dei quali annota delle riflessioni di natura diversa. Rebecca ha tanti interessi e i suoi scritti parlano di viaggi estemporanei ed esotici, della politica moderna quanto di quella antica, descrivono nei minimi dettagli i fiori che man mano vede sul tragitto verso casa, raccontando miti di terre lontane e ormai dimenticate. Rebecca, ogni giorno che passa, scrive sempre di più, con più foga, di argomenti più disparati. Senza che se ne sia resa conto, negli anni una paura si è presa sempre più spazio all’interno del suo cuore: un’angoscia, a tutte le ore del giorno, le dice che se non incide il foglio con l’inchiostro della penna, il grande vuoto che sente si impossesserà di lei. Rebecca perciò scrive, scrive, scrive. Rebecca custodisce i suoi quadernetti con cura, nell’armadio più alto, dove né i bambini né i gatti possono raggiungerli.
Rebecca, però, non si è accorta che la quantità di inchiostro a sua disposizione ogni giorno è sempre la stessa, non aumenta. Quel che aumenta, invece, è la quantità di fatti e racconti che vorrebbe narrare. In una fredda sera d’inverno, sotto gli occhi di increduli di Rebecca si è presentata una pagina vuota, talmente bianca che sembrava guardarla con disapprovazione, quasi come se la volesse punire. Eppure lei aveva scritto, aveva scritto tanto, tantissimo, troppo…. Troppo.
L’inchiostro era talmente sbiadito che ormai era come acqua.
Rebecca alza piano lo testa dalla scrivania e si guarda intorno: la stanza sembra perdere i colori, che di attimo in attimo si fanno più tenui. Rebecca si mette a piangere, fa fatica a respirare. Il letto, i libri, l’armadio, la finestra – persino il gatto! – perdono sempre più colore, per poi cominciare ad apparire di un preoccupante grigio uniforme, che deglutisce tutti gli altri colori sempre più velocemente. Rebecca vorrebbe urlare, non sa cosa stia succedendo. Si prende il volto fra le mani, mentre dei singhiozzi invadono il suo corpo, dei fremiti percorrono la sua spina dorsale, ricordandole l’esistenza di piccole ossa insignificanti, forzandola a piegarsi in avanti. Sulle sue calde guance rosse scorrono veloci le lacrime, che le velano gli occhi. Per questo, Rebecca fa fatica a notare una piccola striscia colorata sul pavimento, che esce dalla stanza furtivamente, come se il suo posto non fosse quello. Rebecca passa il dorso della mano sugli occhi e, libera dalla pellicola lattiginosa, si alza dalla sedia, rizza la schiena in un movimento di maestosa ribellione segreta, e parte alla ricerca di quel filo colorato. Lo segue lungo lo stretto corridoio, gira con lui all’angolo del bagno, sale le scale che portano alla soffitta. E’ confusa, ma decisa. Decisa a riprendersi ciò che le manca più dell’aria.
La luce del colore si concentra in una scatola che apparteneva un tempo alla nonna di Rebecca, ora abitante dell’altro mondo, ed era stata ormai da molti dimenticata, lasciata a marcire in un angolo perché i ricordi che portava con sé erano pesanti, violacei come quelle nuvole che portano una tempesta dopo molti giorni di bel tempo. Rebecca è lì, in mezzo alla soffitta polverosa, chiedendosi perché mai i colori dell’inchiostro si siano andati a cacciare proprio in quella scatola. Piano, fa un passo avanti. Si ferma, si dice che non possibile, che è solo un sogno. Si guarda intorno: il grigio la sta soffocando. Riprende, fa un passo, un altro, l’ultimo, ed è arrivata alla scatola. Prende un respiro profondo e l’apre di colpo, come si fa con un cerotto. All’interno ci sono vari ninnoli, ma Rebecca capisce subito dove deve posare la sua mano: un piccolo quadernetto in cuoio marrone, tenuto insieme da una volgare stringa nera la sta aspettando, la sta chiamando a gran voce.
Rebecca prende questo quadernetto, se lo posa sulla ginocchia per osservarlo meglio, e nota con piacere che le sue mani sono tornate rosee. Piano, con cura, sfila la stringa, la mette da parte e, adagio, apre per mostrare le pagine: sono giallognole, consunte, logore, scritte talvolta fittamente e talora scarsamente. Rebecca, con un’attenzione che sfiora il sacrale, va alla prima pagina e legge in alto a sinistra: Auschwitz, 1943. In un’azione quasi meccanica, la ragazza gira il foglio e nel margine alto stavolta trova: Praga, 1945. La pagina successiva riporta: Ipswich, 1950. Rebecca sfoglia quel quadernetto tanto strano, e nota che ogni pagina è scritta in un luogo e in un tempo differente da tutti gli altri, con un inchiostro che varia nel colore e nella densità: trova lettere eleganti a fianco di grafie illeggibili, pagine sporche di cibo vicine ad altre, lucide e impeccabili. Scorre fino all’ultima pagina che è stata scritta, come se qualcosa le dicesse di farlo. Un sorriso le si forma in volto quando scorge la familiare grafia di sua nonna. Ha scritto una pagina, non fittamente e non scarsamente, non ha sporcato ma non ha lasciato il foglio bianchissimo; il suo inchiostro non è particolarmente scuro, ma nemmeno chiaro. La sua è una pagina normale, né più né meno. Tuttavia, l’occhio di Rebecca è catturato da una postilla, quasi impercettibile, in fondo alla pagina. Sgrana un poco gli occhi alla vista del suo nome.
Sua nonna le ha lasciato solamente quattro parole, nessun messaggio struggente, nessuna lettera d’addio, solo una raccomandazione.
“Hai una pagina, Rebecca, una. Usala bene.”
Non appena legge queste parole, Rebecca sente che il suo cuore espandersi; sente i battiti più decisi, più ritmici; sente i suoi polmoni che si riempono d’aria come se fosse la prima volta; sente le terminazioni nervose sulle mani, sui polsi e sulla punta delle orecchie; sente l’impercepibile corrente d’aria sfregarle le guance.
Ha una pagina, un’intera pagina: l’userà bene.
Mariana