La vita davanti a sé

Un viaggio. Un tuffo. Un salto. Questo è la nuova recensione di Valeria, che, nelle righe che seguono, ci porta a Belleville, quartiere parigino. Dal romanzo di Romain Gary emerge la storia di un bambino nato per sbaglio e cresciuto, negli anni ’70, da una ex prostituta ebrea. Fra le righe di Gary – pseudonimo di Romain Kacew – e quelle di Valeria si staglia la figura di Momò, disegnata con rara precisione da Giulia, protagonista, per citare la nostra scrittrice, di un “monologo scomposto […] in un racconto breve e sfuggente, di rara intensità e profondità”.

La vita davanti a sé, Romain Gary, 1975

All’inizio non sapevo che Madame Rosa si occupava di me soltanto per riscuotere un vaglia alla fine del mese. Quando sono venuto a saperlo avevo già sei o sette anni e per me è stato un colpo sapere che ero a pagamento. Credevo che Madame Rosa mi volesse bene gratis e che ci fosse qualcosa tra noi due.

A Parigi, nel quartiere di Belleville, negli anni ’70, Momò è nato per sbaglio ed è cresciuto affianco alla grottesca e malinconica figura di Madame Rosa, ex prostituta ebrea reduce da Auschwitz, per lui niente meno che una madre un po’ bizzarra. Il triste appartamento al sesto piano in cui vivono è una sorta di rifugio per figli di prostitute, costrette dalla legge, in quanto persone amorali, a darli in affidamento, non importa a chi o in che modo.
Scoprire che non c’è altra ragione al di fuori del denaro per cui Madame Rosa dovrebbe tenerlo con sé, non impedisce a Momò di considerarla la persona più importante della sua vita, prendersi cura di lei cercando di lenire la sofferenza di un vissuto indicibile e la paura tremenda della morte, che peggiora con l’intensificarsi dei dolori fisici.

Con gli altri bambinetti, che costituiscono il modesto reddito di Madame Rosa, Momò non ha mai sentito legami significativi, limitati solo a pochi adulti fidati che, pur con le loro stramberie, per lui sono sempre stati gli unici esseri umani con cui sa di poter condividere qualcosa. Personaggi ai margini della società, come Madame Lola, una prostituta transessuale che vive nello stesso condominio, una volta campionessa di pugilato, che da sempre dà una mano a Madame Rosa per mandare avanti il rifugio ed è quasi una seconda mamma per Momò, o il signor Hamil, un vecchietto arabo di poche parole, ma dal pensiero profondo, con cui scambiare qualche opinione sulla vita, di tanto in tanto:

“Signor Hamil, si può vivere senza amore?” Mi ha guardato ed è rimasto in silenzio. Dovevo pensare che ero ancora vietato ai minori e che c’erano delle cose che non dovevo sapere…

…”Signor Hamil, si può vivere senza amore?”

“Sì”, ha detto, e ha abbassato la testa comese si vergognasse. Mi sono messo a piangere.

C’è poi il dottor Katz, da frequentare più per passatempo che per bisogno, che agli occhi di Momò è un dio da venerare per la serietà del suo lavoro:

Mi piaceva star seduto in una sala d’aspetto e aspettare qualcosa, e quando si apriva la porta dell’ambulatorio ed entrava il dottor Katz, tutto biancovestito, e mi veniva ad accarezzare i capelli, mi sentivo meglio ed è per questo che c’è la medicina.

Momò si sente qualcuno solo in questi piccoli frammenti di vita, attimi di interessamento nei suoi confronti, che sia  una parola di fiducia, uno sguardo o una carezza. Per lui non esiste il diritto di vivere dignitosamente, ha solo la certezza di essere arabo e di non conoscere i suoi genitori.
Nelle sue giornate sempre vuote ama gironzolare per le strade del quartiere, qualche volta a casaccio, altre mettendosi in mostra per racimolare qualche soldino, ben consapevole della presa che esercita sui sentimenti dei passanti per la tenerezza che suscita con i suoi modi garbati.
Il libro parla di un’esistenza invisibile, eppure reale, nella sua quotidianità e in tutti quei momenti casuali che rivelano un sentimento, un desiderio di intrappolare la vita quando capita di sentirsi bene, sentirsi amati.

Un racconto breve e sfuggente, di rara intensità e profondità, grazie all’interpretazione che un bambino sa dare del mondo.
Un monologo di Momò nel linguaggio scomposto di chi ha visto e vissuto troppe cose, il cui senso non riesce a cogliere razionalmente, ma riesce a esprimere con la poesia delle sue parole.

Valeria Delzotti

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