La libertà del mostro

Quello odierno, per Bottega di idee, è un grande passo in avanti. Da gruppo di adolescenti interessati alla diffusione della cultura, a vero e proprio team ospitante esperti, voci esterne, professionisti di questo o quel settore. Così come le interviste (infatti subito apprezzate) portarono una grande innovazione, altrettanto speriamo faccia questa nuova iniziativa lanciata oggi. Quello che segue, infatti, non è un articolo scritto da uno di noi. E’ un pezzo, pensato e composto, da un vero e proprio professionista che (per sua scelta, ha deciso di rimanere anonimo) da oggi in poi, con un articolo al mese, ci farà entrare nella storia e nel messaggio dei film di cui ci parlerà. Un articolo senza firma e senza categorie. Un vero e proprio dono. Noi ve l’abbiamo confezionato, a voi non resta che scartarlo. 

“I am not an elephant,
I am not an animal
I am a human being
I… am… a man!”

Le parole sopra riportate costituiscono l’unico, straziante, grido di ribellione di John C. Merrick, l’Uomo Elefante, così chiamato perché una rarissima malattia denominata neurofibromatosi cistica gli ha deformato in maniera ripugnante le ossa (in particolar modo quelle del cranio), facendo di lui un mostro. La sua storia è narrata nel capolavoro di David Lynch, The Elephant Man, girato nell’anno di grazia 1980 (in cui uscirono titoli del calibro di The Blues Brothers di Landis, I cancelli del cielo di Cimino, Shining di Kubrick, Toro scatenato di Scorsese…). L’allora trentaquattrenne regista di Missoula, Montana, scelse di adattare il suo stile pieno di incubi e la sua ossessione per le deformazioni ad una storia vera (John Merrick nacque a Londra nel 1864 e lì morì nel 1890 ed il suo caso viene trattato nei libri The Elephant Man and Other Reminiscences del dottor Frederick Treves e The Elephant Man, a Study in Human Dignity di Ashley Montagu), ottenendo dei risultati a dir poco eccezionali.

Quando proposero a Mel Brooks, che con The Elephant Man avrebbe inaugurato la sua casa di produzione, la Brooksfilm, il nome di David Lynch per dirigerlo, questi interrogò i suoi interlocutori su chi fosse questo emerito sconosciuto. E, infatti, il giovane regista aveva diretto sino ad allora soltanto l’indipendente Eraserhead (1976) e il suo nome non circolava nel circuito delle grandi produzioni, tanto che si racconta che quando si seppe delle otto nominations agli Oscar (non ne vinse scandalosamente nessuno), alcuni giornalisti lo scambiarono per britannico. Ma mai scelta si rivelò più azzeccata, poiché nacque uno dei più grandi film di tutti i tempi. Questa può sembrare un’affermazione piuttosto arrischiata, ma di pellicole in cui si unisca orrore e tenerezza, tecnica e poesia, non se ne contano, purtroppo, moltissime, nemmeno negli anni d’oro del cinema muto. Tutto questo senza snaturare l’essenza di un regista-artista normalmente interessato alla fisicità di personaggi alienati e a vicende stranianti e luciferine. Perché cosa ci può essere di più affascinante, di più coinvolgente (e, in questo caso, sconvolgente) di una storia assolutamente vera (cfr. Una storia vera, sempre suo)?

Lynch, partendo da una sceneggiatura di Christopher de Vore ed Eric Bergren da lui stesso adattata, gira con uno stile a metà tra il realistico e l’onirico, e descrive la Londra vittoriana come un posto piuttosto disarmonico (si legga, a confronto, il graphic novel From Hell di Alan Moore ed Eddie Campbell), dove, a pochi isolati di distanza l’uno dall’altro, convivevano lussuosi salotti, squallidi sobborghi e ciminiere fumanti, una città inquietante sempre immersa in una condizione di maltempo quasi umorale. La stessa epoca vittoriana, paradossalmente, con il prepotente ingresso delle macchine nella civiltà industriale e i successivi instabili mutamenti, sembra essere la più adatta per accogliere il cliché del regista e le vicende di mostri veri e mostri apparenti. John C. Merrick appartiene senza ombra di dubbio a quest’ultima categoria. Nonostante sia di aspetto orripilante (il viso ha ben poco di umano, ha il braccio destro completamente deforme, la schiena è senza pelle e devastata dalle escrescenze tumorali e cammina a fatica), vince la repulsione di chi non si limita a guardarlo con un carattere di rara bellezza. All’inizio non parla, ma solamente perché non abituato a farlo, lui che per molti anni ha dovuto limitarsi ad esibire il suo corpo agli sberleffi ed al terrore del pubblico. Dà così l’impressione di essere del tutto ebete (Prego Dio che gli conceda di esserlo per sempre dice Treves). Tiene la testa coperta, perché la sua più grande paura è di far paura agli altri, un timore che lo porta a nascondersi e ad accettare di vivere in uno scantinato buio. Per questo urla quando la giovane infermiera Norah viene colta da una crisi isterica: non per rabbia, ma per il dolore di essere stato involontaria causa del suo spavento. Quando capisce che il dottor Treves lo vuole aiutare, decide di aprirsi, rivelando un’intelligenza acuta e una spiccata indole artistica. Questo lo può rendere bene accetto agli altri, anche all’alta società vittoriana che, spinta da un interesse per lo più freddamente entomologico e carico di patetico pietismo, finisce con l’accettarlo come uno dei membri più graditi. Il superamento di questa complessata timidezza avviene soprattutto per merito di due donne (e, nel film, le donne, per quanto piccoli siano i loro ruoli, determinano l’evolversi della vicenda): la moglie del dottor Treves che non lo rifugge e partecipa del suo dolore e la bella attrice Mrs. Kendal, che, valicando l’orrore, lo ammira ed è commossa a tal punto da baciarlo su una guancia. E così lui diventa un perfetto gentleman, ma quando arriva al culmine della felicità (l’ospedale gli dona la stanza), ecco che il Fato lo riporta bruscamente coi piedi per terra: lui è un mostro ed è così che la gente lo vede, un freak da osservare per sentirsi migliori e fortunati, ma anche da malmenare e sbeffeggiare per esorcizzare la paura e l’orrore che causa con il suo terribile aspetto. A questo punto è logico che lui ritorni con l’antico sfruttatore, perché nello sconforto è quasi meglio la vecchia vita a un’esistenza così incerta. Ma la vecchia esistenza non è più come una volta. Il vecchio ubriacone è sempre più convinto che “quell’aborto della natura” sia di sua esclusiva proprietà e, se possibile, lo tratta ancora peggio, minacciando addirittura di negare persino la sepoltura a “quell’ammasso di carne”. Di questo si accorgono anche gli altri freaks che non possono sopportare di vederlo morire in una gabbia e decidono di farla finita; la scena in cui la coppia di nani, supportati dall’uomo-bestia e dal gigante, lo liberano e lo conducono per i boschi è intrisa di una fortissima carica di magico e disperato lirismo, così come la frase con cui si accomiatano da lui (Buona fortuna amico mio… chi più di noi ne ha bisogno?). Ma nonostante il loro commovente tentativo di salvarlo, lui è ridotto ad una larva, sta per morire e non parla di nuovo più, tranne che nello sfogo riportato all’inizio, un urlo disperato ad un mondo che non può e non vuole capirlo. E anche se ha la possibilità di tornare alla felicità della vita di società, non è del tutto incomprensibile la sua scelta di morire: meglio suicidarsi in un momento di gioia, che vivere, comunque ancora per poco visti i problemi respiratori, col rischio di dover alternare la compagnia dei suoi molti amici (ma non tutti autentici, come i due anziani borghesi che gli portano in dono un bastone ma che celano a fatica il loro ribrezzo nei suoi confronti) alle umiliazioni che di certo gli continuerebbe a riservare il popolino. Oltretutto, nonostante tutti gli sforzi di Treves, che pure non gli nasconde l’impossibilità di una guarigione, John non potrebbe mai essere normale. Da quest’ottica anche la tecnica del suicidio, lo sdraiarsi come un uomo normale, assume un senso, come una sorta di ribellione al destino crudele che lo perseguita. Logicamente la normalità è la sua massima aspirazione, perché solo tramite essa otterrebbe l’unica cosa che non ha mai avuto, né nel periodo trascorso con Bytes né nel successivo con Treves: il rispetto. In questo senso (ed unicamente in questo) c’è una sola differenza tra i due periodi della sua vita: nel primo la mancanza di rispetto era palese e per nulla celata, visto che il popolo ignorante non poteva vedere una persona vera in lui, sorta di bestia da sfruttare per far soldi. All’interno della jet-set vittoriano, invece, questa mancanza è più o meno peggiore, giacché quasi tutte le persone altolocate (eccezion fatta per Mrs. Kendal) che si avvicinano a lui lo fanno per essere “alla moda” ed adeguarsi così al già allora evoluto gossip. Questo falso pietismo appare così come un affronto gravissimo che John, abituato a trattamenti ben più meschini, sembra non cogliere, ma per cui, probabilmente, soffriva. Dopo tutto a lui venne negata dal mondo la cosa che fa di un uomo un uomo: la dignità. Vi è un terzo livello di osservazione, che trasporta il film su di un piano squisitamente filologico: The Elephant Man è, in fin dei conti, una riflessione neanche troppo sottile sullo sguardo e quindi sulle pulsioni voyeuristiche umane. Ma il cinema stesso è un’arte per sfogare gli istinti da voyeur delle persone. Lo spettatore si trova così posto su un livello non dissimile a quello della gente messa a contatto con Merrick: non deve interagire con lui, ma si trova sempre al centro dell’azione, osservandolo in maniera ravvicinata e particolareggiata più di chiunque altro (l’occhio infatti, mentre l’Uomo Elefante è in scena, difficilmente si cura del resto). Inoltre, messo davanti ad un caso tanto disperato, viene colto, per via del comunissimo istinto di immedesimazione, da un sentimento di pietismo simile a quello dei borghesi vittoriani, più che da un senso di orrore (che del resto il regista impedisce con un tono di tenerezza, evitando comunque il patetismo e la conseguente melassa). E una volta finito il film difficilmente riesce a giudicare con obiettività l’atteggiamento dell’alta società, colto come è stato da una pulsione quantomeno paragonabile alla loro.

La caratteristica che fa di John C. Merrick un personaggio unico nel filone cinematografico dei freaksmovie è il fatto che, offeso più e più volte nella sua dignità di essere umano, non ha praticamente mai un moto di ribellione. Se infatti vogliamo dare uno sguardo indietro, non possiamo che ritornare ad un altro capolavoro assoluto, Freaks (1932), di Tod Browning, assai simile a The Elephant Man per la presenza di veri e propri mostri (questi addirittura lo erano anche nella realtà). Anche questi vengono esibiti al pubblico, ma non appena vengono offesi e raggirati, passano dalla semplice condizione di male fisico ad una malvagità scura e morbosa, diabolica, facendosi giustizia da sé, e così è per tutti gli altri mostri fittizi, da Frankenstein (James Whale, 1931) in avanti. Invece John non ricerca nemmeno la protezione di quella ufficiale, conservando un carattere che non è, come nell’altro film, la parte nascosta e più inquietante della psiche umana, ma un aspetto speculare alla propria orribile deformità. Da questo punto di vista vi è quindi un solo altro film con un personaggio simile: si tratta di Dietro la maschera (1985) dell’ex-critico Peter Bogdanovich, che narra anch’esso la storia vera di un ragazzo, Rocky Lee Dennis (morto all’età di 16 anni), col viso distrutto da una malattia simile a quella di Merrick, la leontiasi. Anche Rocky ha lo stesso animo gentile, ma bisogna dire innanzi tutto che è vissuto ai giorni nostri, e poi che era circondato e protetto dall’affetto sincero di tutti gli sbandati frequentati dalla madre, senza dover subire tutti i terribili affronti a cui è stato soggetto il protagonista del film di Lynch.

L’altro carattere principale del film (e da un certa ottica il vero protagonista) è il dottor Frederick Treves, personaggio unico, un uomo che arriva a scegliere di affrontare dei rischi personali per salvare la vita di un essere umano perduto, trascurando tutto il resto. Compie una grossa metamorfosi per arrivare a questo. All’inizio la sua curiosità per Merrick non è molto dissimile da quella di un qualsiasi popolano, anche se, quando lo vede per la prima volta, vediamo i suoi occhi riempirsi di lacrime. Probabilmente non ha tutti i torti l’anziano medico contrario all’ammissione definitiva di John nell’ospedale, che crede che tutto questo interesse da parte sua per lo sfortunato Elephant Man deriva dalla voglia di farsi un nome, in un delirio di vampirismo scientifico. Infatti prima di arrivare ad un comportamento filantropico lo sfrutta per un fine professionale, esaminandolo davanti ad una platea di colleghi. Ma, come già anticipato, non conserva sempre lo stesso scopo: si può dire che giunga al compimento della sua mutazione quando capisce che dietro al mostro c’è una persona eccezionale che necessita soprattutto di un valido supporto psicologico per salvarsi dalla sua paura più grande, ovvero gli sguardi della gente. Tutto questo grazie ad un drammatico colloquio con l’anziana capoinfermiera, che dietro alla freddezza che la sua professione le impone, diventa una sorta di tenera e protettiva madre adottiva per John. Per questo non esita a far notare al medico che l’interesse da lui dimostrato potrebbe essergli nocivo. E Treves, confessa alla moglie di non sentirsi molto diverso dal viscido Bytes (Sono un uomo buono o un uomo cattivo? Si domanda infine). Da allora diventa un vero e proprio paladino dello sfortunato John C. Merrick, difendendo strenuamente la sua causa, supportato dalla benevolenza diretta del burbero direttore dell’ospedale Carr Gomm, e da quella indiretta di Alexandra, principessa del Galles, e della regina Vittoria. Dimentica persino i modi da gentleman quando capisce che il principale responsabile della sua scomparsa è il guardiano notturno, e lo aggredisce rischiando la vita (è salvato da una provvidenziale botta in testa assestata dalla capo-infermiera). La folle determinazione con cui lo cerca, l’abbraccio che gli riserva quando viene riaccompagnato all’ospedale e la sincera commozione con cui prende la responsabilità e si scusa con lui dell’accaduto non fanno che confermare il suo affetto per il povero Elephant Man.

The Elephant Man è uno di quei pochi film che possono essere definiti perfetti in ogni particolare, dallo splendido bianco e nero di Freddie Francis, alternativamente scuro e lucidissimo o chiaro e sgranato all’insegna del miglior sperimentalismo, alla colonna sonora di John Morris, al sonoro di Alan R. Splet (probabilmente uno dei migliori della storia del cinema), fino ad arrivare alle splendide interpretazioni del biondo e barbuto Anthony Hopkins, di Anne Bancroft e di Sir John Gielgud. Più sofferta, ma comunque ottima, quella di John Hurt, la cui mimica, non dimentichiamo, era imbrigliata da un trucco pesantissimo. Un make-up ideato da Chris Tucker sulla base del calco della testa (solo, Merrick aveva il viso più allungato, il che fa comprendere maggiormente il suo paragone con un elefante), di un braccio e di un piede eseguite al London Hospital dopo la sua morte, ed applicato con una perfezione quasi miracolosa, durante sedute quotidiane della durata di sette ore, da Wally Schneiderman. Lynch, dal canto suo, contribuì alla riuscita del film col suo stile visionario e personalissimo fatto di carne, fumo, oscurità e incubi. E tipicamente lynchiani sono il prologo con gli elefanti, il sogno di John, lo spettacolo di pantomima e la madre che dal cielo chiama il povero figlio con quella filastrocca che è simbolo di pacificazione e di speranza per una vita ultraterrena più serena. Non è scevro da meriti neanche il produttore Mel Brooks (conosciuto come regista di famosi film comici, tra cui Frankenstein Junior) che impose il regista alla Paramount dopo aver visto Eraserhead, e che mise la sua pluriennale esperienza a servizio del film, suggerendo a Lynch molte delle scelte felici del film, tra cui bisogna ricordare l’idea, geniale nella sua furbizia, di mostrare per la prima volta John dopo più di mezz’ora, filtrandolo attraverso gli occhi di una giovane infermiera inesperta piuttosto che attraverso quelli di un medico navigato. Tutta questa combinazione di elementi più o meno importanti che interagiscono perfettamente, crea, come già accennato, un film unico e bellissimo, un capolavoro di assoluto valore innanzi al quale non è per nulla possibile evitare di commuoversi.

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