Terra

La terra, fotografata da Alessia, è parte integrante della nostra vita. Attraverso riferimenti alla cultura romana e ai più moderni dati scientifici, Francesca ci guida attraverso il rapporto dell’uomo con la terra, intesa sia come spazio da coltivare sia come luogo dove fiorisce uno Stato.

Di terra si è parlato parecchio di recente. Terra nel suo senso politico, di territorio appartenente a una nazione, delimitato da precisi confini. Nei decenni precedenti in Europa era stata inaugurata un’epoca di fluidità e apertura per quanto riguarda la gestione e il controllo del territorio, e nell’ultimo periodo si sta registrando un’inversione di rotta che ha portato spesso confini e territori nazionali al centro di dibattiti e referendum. Non è la prima volta nella storia che la terra diventa emblema della propria identità e baluardo di difesa contro le identità altrui. Ed è interessante ricordare, in tutto questo, che c’era un tempo, dodicimila anni fa circa, molto in termini storici, poco in termini antropologici, in cui l’uomo era un nomade.

É dalla terra che è cominciato tutto- nello specifico, dalla coltivazione della terra. Quando gli esseri umani si sono resi conto che coltivazione era più redditizia e comporta meno rischi di cacciare e raccogliere, c’è stato il passaggio cruciale da nomadismo a sedentarietà. Ed è nelle terre più fertili, proprio per la maggiore disponibilità di raccolti e nutrimento, che si sono sviluppate le prime civiltà. E, anche quando queste civiltà si sono evolute e all’agricoltura si sono sovrapposti altri mezzi di sviluppo economico, essa ha continuato a rivestire un ruolo di prima importanza. 

Anche i Romani, i grandi conquistatori di tutta l’Europa, erano una cultura in origine di stampo agro-pastorale, ancorata al loro territorio e alla loro terra. Tra i miti romani delle origini spicca quello di Cincinnato, vir bonus colendi peritus, cioè uomo buono ed esperto agricoltore. Cincinnato, chiamato a risolvere un’emergenza di stato, subito lascia i campi per il bene di Roma, e, una volta risolto il problema, senza neanche aspettare che il mandato scada, ritorna nei suoi campi. Per i Romani, un uomo come Cincinnato era il segno di una devozione allo stato priva di brame di potere, e di una devozione alla terra che garantiva l’umiltà del contadino. 

Lo stesso imperatore Augusto, di per sé interessato solo all’appropriazione del potere assoluto, a fini propagandistici rivangò il mito del bonus agricola, il buon agricoltore. E Virgilio, poeta del regime augusteo ma che cercava di costruire su di esso una retorica che fosse complessa e non meramente elogiativa, scrisse per Augusto le Bucoliche. Quattro libri di tecniche di coltivazione, con apparente influenza politica pari a zero, in realtà contenenti una riflessione che partendo all’agricoltura si estendeva ben oltre. 

All’inizio la terra dava tutto spontaneamente, spiega Virgilio, poi Giove nascose le fonti della vita, non per punizione all’uomo, anzi, per farne risaltare le migliori qualità. Il lavoro dei campi, con la sua durezza e le sue asperità, veniva così interpretato come una sorta di palestra per rafforzare l’animo umano. Labor omnia vincit, improbus, scrive il poeta. Cioè, la fatica improba vince su ogni cosa. E tuttavia, e qui si vede la finezza di Virgilio, la fatica deve essere improba. Non è qualcosa da prendere alla leggera, o da trascurare, perché la natura è pronta a riprendersi tutto ciò che l’uomo ha coltivato. 

Il fatto è che noi della terra possiamo continuare a dirci proprietari, ma non lo siamo davvero. Perché l’idea di proprietario implica un completo controllo e una sottomissione se non totale, quasi. E invece ci mancano entrambi. Un efficace esempio lo dà Michael Pollan, scrittore e giornalista, nel suo libro “la seconda natura”. Racconta del suo tentativo di coltivare un piccolo orto nel giardino di casa e dei risultati all’inizio fallimentari. Le marmotte divorano i cavoli, gli afidi mangiano le foglie. La natura sembra restia alla creazione dell’orto. Per migliorare il rendimento Pollan esamina le varie tecniche possibili: dalle più invasive, con pesticidi e simili, che trasformano il giardino, a suo detto, “in un regime totalitario”, con risultati non proprio soddisfacenti, alle più rilassate, che prevedono sostanzialmente di lasciare le piante a se stesso, che tuttavia non tengono conto del fatto che la natura tende a far crescere una vegetazione spontanea, non quella ordinata necessaria a un orto. Quello che Pollan decide di mettere in atto è un misto delle due tecniche, senza fare a meno dell’intervento umano e senza trasformarlo in una guerra dichiarata. Il punto sta proprio, scrive Pollan, nel ricercare un equilibrio tra natura e cultura: la natura non è forse benigna e accogliente come si dipinge di solito, ma che l’unica via possibile per la convivenza è una collaborazione la più possibile pacifica. Collaborazione, per l’appunto, che significa coesistenza di organismi viventi, non possesso dell’uno da parte dell’altro.

Varrebbe la pena di ricordarselo anche per quanto riguarda la protezione del suolo. Il suolo è la parte più esterna della superficie terrestre, quella su cui si cammina, si coltiva, si costruisce, possiede le sostanze nutritive necessarie per permettere la coltivazione ed ha una caratteristica non menzionata abbastanza spesso: non è una risorsa rinnovabile. O meglio, proprio come il petrolio, impiega tempi estremamente lunghi per rinnovarsi.  Sul sito dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale), è possibile ottenere il rapporto del 2018 sul consumo del suolo, in cui si legge che “il consumo del suolo è un fenomeno associato alla perdita di una risorsa ambientale fondamentale, dovuta all’occupazione di superficie originariamente agricola, naturale o seminaturale. Il fenomeno si riferisce a un incremento della copertura artificiale di terreno, legato alle dinamiche insediative e infrastrutturali” Insomma, quando ciò che ciò che l’uomo costruisce priva la terra delle sue proprietà iniziali o rende molto difficile recuperarle. Come si legge ancora sul rapporto dell’ISPRA, solo in Italia dagli anni 50 a oggi si è passati dal 2.7% al 7.65% di suolo nazionale consumato in un anno, un aumento di quasi cinque punti percentuali. Per il 2017 si parla di “una velocità di trasformazione di poco meno di 2 metri quadrati di suolo che, nell’ultimo periodo, sono stati irreversibilmente persi ogni secondo”. Persino il rallentamento verificatosi tra il 2008 e il 2013 pare essere giunto al termine.

Non è un problema da poco. Si è parlato di quanto l’essere umano sin dagli albori della storia sia stato legato all’agricoltura e definito dalla terra che abita: ebbene, il consumo del suolo rischia di danneggiare gravemente questa terra. Dal punto di vista agricolo, perché si riducono le superfici coltivabili, al punto di vista ambientale, perché si minaccia la biodiversità e si contribuisce al cambiamento climatico, ma anche dal punto di vista culturale, perché il paesaggio è patrimonio dell’umanità tanto quanto lo è l’arte.

Dunque, visto il forte accento dato al legame identità-territorio negli attuali dibattiti politici, si potrebbe parlare più spesso anche della sua preservazione. Perché, ospiti di questa terra come siamo, sarebbe bello se non fossimo cacciati via.

Francesca 

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