Festival di Internazionale a Ferrara
In questo reportage, che è un’attenta descrizione dell’evento e dell’atmosfera di dialogo e di apertura mentale di quei giorni, Francesca ci racconta del Festival di Internazionale che si è tenuto a Ferrara tra il 4 e il 7 ottobre.
Arrivo
La cosa più bella di questo festival di Internazionale a Ferrara è l’aria che si respira, un’aria cosmopolita, vivace, allegra, attiva. Ha il sapore della parte migliore della democrazia. Mi guardo attorno e vedo: una ragazza con i capelli raccolti in una coda raffazzonata, una giacca sportiva e una sciarpa dai colori sgargianti, il volto tuffato nel libretto giallo dei programmi; gruppi di persone che chiacchierano ad alta voce tra di loro, seduti su un lato della piazza, diretti ad uno dei tanti stand, affollati nello shop del festival; una coppia anziana, vestita tranquillamente, dall’espressione vispa, che si sono fermati ad ascoltare Gipi. Il fumettista italiano è in piedi su una piccola piattaforma davanti alla cattedrale e recita a voce bassa, composta, ferma, una lista di nomi. Sono i nomi dei trentamila migranti morti nel tentativo di raggiungere l’Europa dal 1993 a oggi. Mi avvicino per un po’, mentre la lista si è appiattita ad un ripetersi monotono: N.N., N.N., N.N.,… che sta per “nescio nomen”. I nomi si possono sopportare, ancora, ma la loro assenza ha qualcosa di brutale.
Mi allontano con il cuore un po’ più pesante.
Economia circolare e agricoltura sostenibile
Dopo l’introduzione di Roberta Carlini, giornalista e moderatrice di questo incontro, cominciano a parlare di economia circolare parlano Marco Morosini, docente di politiche ambientali, e Lorenzo Massa, professore di ingegneria meccanica. Si tratta dell’opposto all’economia lineare, del consumismo usa-e-getta che va per la maggiore. Economia circolare è, in parole semplici, quel sistema per cui i beni non si usano una sola volta, ma si riciclano: consiste nel far circolare le cose, al posto che buttarle. Non si basa più sui beni, che sono fatti per essere prima o poi buttati, ma sui servizi, che invece si possono ripetere. Questo schema circolare necessita di meno energia e risorse per ottenere dei prodotti, e sfrutta maggiormente i prodotti già presenti, con un risparmio complessivo molto vantaggioso. Certo, all’apparenza riciclare non aumenta la ricchezza, ma, spiegano i relatori, si tratta solo di riformulare i nostri parametri, e di giudicare una nazione non più dal PIL ma dai livelli di benessere. Certo, un’economia perfettamente circolare è un’utopia, ma ciò non toglie che ci si debba muovere in quella direzione.
A questo punto Nelly Pons, scrittrice e giornalista francese, sposta la questione più specificamente sull’agricoltura: la natura è, di per sé, la più grande maestra di circolarità, del creare abbondanza senza creare rifiuti. L’agricoltura biologica, in questo senso, è di ottimo esempio, ma non basta fare attenzione ai metodi di coltivazione per renderla perfettamente sostenibile: bisogna anche fare attenzione a come viene utilizzata questa produzione, per esempio per quanto riguarda i trasporti. Infine interviene Rita De Padova, fondatrice della cooperativa Emmaus, ricordando che il modello di economia lineare è di per sé un modello escludente dal punto di vista sociale e quindi, oltre a distruggere l’ambiente, distrugge anche le persone che lo praticano. E allora il problema del passaggio all’economia circolare e all’agricoltura sostenibile diventa anche un passaggio di mentalità. Per esempio, bisogna cominciare ad accettare sistemi di cooperativismo, e rilanciare la collaborazione. Per evitare danni sociali ed ecologici, per andare oltre modelli che non funzionano più, occorre mantenere uno sguardo aperto.
Martìn Caparròs, “Amore ed Anarchia”
Quando sul palco salgono Martìn Caparròs, giornalista e scrittore argentino, e Giuliano Milani, storico, la platea è gremita nonostante il cielo greve di nuvole sia promessa certa di pioggia. Martìn Caparròs, ha scelto di usare l’italiano per non sprecare tempo prezioso nella traduzione, ma la forza delle sue parole si trasmette anche in una lingua che non è la sua originaria. Ci parla del suo libro con modestia e consapevolezza, dice: “Tutti i libri interessanti cominciano con un dubbio”. La storia raccontata è quella di Soledad, una ragazza argentina che venne in Italia nel 1997, si innamorò di Edoardo “Baleno”, anarchico torinese; Soledad e Baleno vennero arrestati con un amico e su di loro venne posta la grave accusa di “ecoterrorismo” e di “associazione sovversiva” per gli attentati avvenuti tra il 1996 e il 1998 come protesta alla TAV, nonostante mancassero prove chiare e nonostante Soledad fosse appena entrata nel movimento e quindi non potesse essere partecipe di azioni tanto importanti.
Il pubblico ascolta con attenzione, partecipe ad ogni parola, quando d’un tratto le rare gocce d’acqua si intensificano a creare una vera e propria pioggia; dalle borse escono ombrelli, cappelli, sciarpe, e alla constatazione che la pioggia non accenna a smettere e sarà necessario trasferirsi all’interno, qualcuno dalle file dietro grida: “Portico! Portico!”. Infatti dietro il palco c’è un porticato, e noi spettatori ci accalchiamo sotto, mentre Caparròs e Milani, protetti da due ampi ombrelli, si girano dalla nostra parte, dall’altra parte, quella in cui si muovono anche gli addetti alle registrazioni e lo staff, pur di continuare il discorso. E così, in piedi sotto il portico del Castello Estense, ci viene narrato l’esito tragico della vicenda: condannato al carcere, Baleno si uccide, e Soledad, pochi mesi dopo, fa altrettanto. E noi riflettiamo: sulle violazioni che lo stato opera nascondendole sotto l’applicazione di legge, sul desiderio di cambiamento che doveva animare Soledad, sul gesto estremo che ha commesso; riflettiamo, cercando di non cadere in semplificazioni come l’esaltazione acritica o il rifiuto immediato, cercando di capire le ragioni, di guardare la storia senza preconcetti ma con spirito analitico. E quando Caparròs legge la scena finale del libro, la morte di Sole, l’applauso che segue non è di pura cortesia.
Il figlio del secolo, Antonio Scurati.
La pioggia continua, per questo abbiamo abbandonato il cortile del castello per entrare in una sala interna, dove sono seduti, dietro a una lunga tavola lignea, davanti a uno stemma di sapore medioevale, Antonio Scurati, scrittore, e Giorgio Zanchini, giornalista e scrittore. Scurati, scrittore, ha da poco pubblicato “M. Il figlio del secolo” un romanzo storico su Mussolini scritto in prima persona che va dal 1919 al 1924, a raccontare quindi gli albori del fascismo, dalle prime, poco frequentate, riunioni, al momento in cui Mussolini si assunse davanti alla nazione la responsabilità del delitto Matteotti, sfidando i parlamentari a denunciarlo. L’autore ci tiene parecchio a definirlo romanzo, perché, spiega, nonostante l’abbondanza di saggi sul tema, un approccio a Mussolini sotto forma di romanzo non era mai stato tentato. Non c’è però, in tutte le ottocento pagine del romanzo, un solo elemento di finzione: nelle prime pagine un disclaimer a rovescio informa il lettore che tutti i fatti, le parole e i documenti presenti nel libro non sono frutto dell’immaginazione dell’autore, bensì sono ricavati del tutto da documenti storici. Questo metodo, nelle intenzioni dell’autore, rivela la sua importanza in un mondo in cui la storia spesso si trasforma in spettacolo e in cui dunque il confine tra fiction e fatto è sempre più labile. Quindi, da un lato, si assiste ad un’indagine storica molto precisa, e dall’altro, davanti a questa totale corrispondenza alle fonti storiche, i paralleli con il mondo presente non si possono più definire frutto delle idee politica dell’autore, ed emergono con tutta la loro forza. Anche se Scurati stesso ripete che è necessario comunque fare le debite differenze tra una modernità comunque dotata di basilari diritti e anni in cui la violenza era la norma. Mi alzo dall’incontro con un’inquietudine radicata ma senza rimpiangere neanche un secondo di avervi partecipato: perché è da questa consapevolezza, per quanto difficile, che si parte per cambiare qualcosa.
Dove mi trovo, Juhmpa Lahiri
Jhumpa Lahiri è una scrittrice una americana di grande successo e di grande bravura che qualche anno fa si è innamorata della dell’italiano, proprio dell’italiano, una lingua parlata da una esigua parte della popolazione mondiale, se ne è innamorata al punto tale da sceglierlo come lingua della scrittura. E questo nonostante avesse a disposizione la lingua che tutti sognano di imparare: l’inglese. Ora si trova a Ferrara a parlare con Domenico Starnone, scrittore e autore su Internazionale, del libro che è nato da questa difficile migrazione letteraria, “Dove mi trovo”.
E in un certo senso è di questa migrazione che tratta “Dove mi trovo”: di straniamento, isolamento, di spostamenti e di legami con i luoghi, della difficoltà di spostarsi e di trovare una nuova collocazione- o forse, in generale, di trovare una collocazione. Il libro è insieme di piccoli racconti-frammenti in cui una donna senza nome si muove in una città senza nome, scelta che già di per sé trasmette al lettore un senso di straniamento. Sono nominati solo spazi generici “in treno”, “dall’estetista”, “in piazza”, “tra sé e sé”. Perché, come spiega Starnone, anche “Tra sé e sé” è un luogo, quel luogo che si trova dentro a sé stessi e a cui non può rinunciare nessuno, e di sicuro non uno scrittore- lo scrittore ha una vocazione solitaria, aggiunge Jhumpa Lahiri.
Tuttavia, anche nella complessità e confusione dello spostamento, Jhumpa Lahiri rivendica orgogliosamente la sua scelta di cambiare lingua, in grande opposizione a quella che è la tendenza della letteratura americana, di essere tradotta molto ma di tradurre poco. Quando invece la traduzione altro non è che una forma di comunicazione, un efficacissimo antidoto al pensiero unico. Perché, afferma, è nel vedere le cose da un solo punto di vista, come dice la mia amica Murgia, che sta il fascismo.
Partenza
Prima di andarmene passo allo shop di Internazionale un’ultima volta: hanno borse di tela e magliette con aforismi e definizioni buone da tener presente, specialmente in questo periodo. Sulla maglietta che scelgo c’è una parola diventata spinosa: democrazia. È definita come “Insieme delle forze politiche che sono in opposizione con ogni governo dittatoriale”. Non è la definizione ufficiale, non è quella che si studia sui banchi di scuola, eppure, dopo questi due giorni, la sento vera. E mi rendo conto che questo festival è stato un buon modo per riconciliarsi con un’idea positiva, attiva, di democrazia, per recuperare l’ottimismo della volontà necessario a costruirla. Forse è questo il filo rosso che unisce tutti i questi incontri. Questa apertura mentale, questo spirito critico, questa costante ribellione al pensiero unico e volontà di esaminare, di cambiare, di trovare nuovi modelli, per potersi muovere in libertà. Come il funambolo che per tutti i tre pomeriggi del festival ha camminato lungo un filo teso nell’aria, tra le due torri del castello estense.
Francesca