Mare

Il mare (per noi fotografato da Alessia) è una creatura a due facce: meta prediletta da molti per le vacanze, e luogo pericoloso, indomito e tempestoso. Attraverso la letteratura, Francesca ci mostra il contrasto stridente tra questi due volti.

Pensavo fosse facile scrivere sul mare.  Ho raccolto tutte le idee che mi venivano in mente, aspettavo che il testo mi si componesse davanti agli occhi. E invece niente, alcuni punti si associavano ma l’insieme rimaneva stranamente slegato. Pensavo fosse facile scrivere del mare, come lo è con quello che conosci bene. Mi era sfuggito che il principale ostacolo era proprio questo.

Per prima cosa, mare uguale vacanza. È una sorta di assioma inevitabile, specialmente in estate. Un po’ perché ci vanno tutti, e il fatto che ci vadano tutti obbliga tutti ad andarci, un po’ per la bellezza di nuotare o anche solo stare stesi sulla spiaggia a prendere il sole. È piacevole, è rilassante.
Altro assioma: si va al mare per sfuggire allo stress. Quest’idea della vacanza al mare in realtà è relativamente recente, ha all’incirca un secolo. Nel romanzo I Buddenbrook, scritto all’inizio del Novecento, il protagonista Thomas va a fare una vacanza al mare per riprendersi da un periodo particolarmente faticoso. E guardando le onde dice alla sorella:

“Quali sono gli uomini che preferiscono la monotonia del mare? Sono quelli, mi sembra, che hanno scrutato troppo a lungo, troppo profondamente nel groviglio delle cose interiori per non chiedere almeno a quelle esteriori una cosa soprattutto: la semplicità…”

In altre parole, per Thomas Buddenbrook nel mare “si cerca riposo nella vasta semplicità delle cose esteriori, stanchi come si è della confusione di quelle intime.”  E non c’è bisogno d’essere del tutto d’accordo con la filosofia dietro queste parole per riconoscere che il sentimento espresso è comune. È quel senso di pace provato nell’osservare la superficie del mare quando è calmo, quando ogni preoccupazione sembra dissolversi in quella distesa piatta. Allora stavo per scrivere che il mare è vacanza e pace. Ma come metterla con le tempeste?

C’è sempre stato, in letteratura e nelle arti, il mito della tempesta, di una forza prima trattenuta che si scatena all’improvviso e provoca distruzione incontrollata. E con esso l’idea che il mare rappresentasse una sorta di limite, un qualcosa di difficile, se non impossibile, da domare.
Chi dimostra arroganza finisce male, come prova la vicenda del Titanic.
E in generale, dal punto di vista storico, il mare ha sempre rappresentato un pericolo. Tra le onde affondavano le navi commerciali e arrivavano minacce di guerra.
Il poeta latino Virgilio nell’immaginare una nuova età dell’oro prospettava che nessuno si sarebbe dovuto avvicinare all’acqua. E un altro poeta, Tibullo, elogiava la bellezza di non dover viaggiare spostandosi sulle acque. In epoche in cui le traversate per mare erano meno sicure di oggi, il mare era un’incognita che poteva portare a grandi perdite. Ancora nel romanzo dell’Ottocento, I Malavoglia, ambientato in un paesino siciliano, il capofamiglia Padron ‘Ntoni sentenzia che “Il mare è amaro e il marinaio muore in mare”. E, infatti, mentre uno dei membri della famiglia attraversa il mare con un carico di lupini, una tempesta fa affondare la nave e uccide il ragazzo, determinando la rovina della famiglia.

Tuttavia non c’è stata epoca in cui, a dispetto della sua pericolosità, le popolazioni si siano tenute lontane dal mare. Perché proprio in quel pericolo è contenuto un nucleo di fascino e quell’ignoto è anche la promessa di una scoperta. L’esempio è Ulisse. Viaggia per dieci anni in mare (in realtà due, ma questo è un altro discorso), arriva finalmente alla sua Itaca, riconquista il trono combattendo duramente contro i proci, e poi riparte. Di nuovo diretto verso il mare, di nuovo in movimento verso quell’orizzonte che si allontana sempre, metro dopo metro, come Achille che non raggiungerà mai la tartaruga e la insegue sempre. E non a caso questo mito è stato riproposto nelle sue varianti più diverse nel corso di tutta la storia fino ad arrivare ad oggi. Vuoi per esaltarlo o per volgerlo in tragedia o persino per scherzarci su, ha continuato a essere riletto da artisti e poeti. Una delle riletture la fa Saba in una sua poesia intitolata appunto Ulisse, identificando nell’eroe omerico il modello della sua vita e della sua ricerca poetica. E in questa poesia si riflettono perfettamente i vari volti del mare. Prima Saba evoca la bellezza delle selvagge coste dalmate in cui avevano navigato sia l’eroe omerico sia lui stesso (perché a Saba, uno dei più grandi poeti del secolo scorso, quand’era ragazzo, fu sconsigliato di proseguire gli studi, così lui prima si iscrisse all’Accademia di Commercio e Nautica, poi la abbandonò e per un po’ lavorò come mozzo) dove “isolotti fior d’onda emergevano, ove raro/ un uccello sostava intento a prede/ coperti d’alga, scivolosi al sole, belli/ come smeraldi”. Nei versi seguenti si manifesta il pericolo insito in questi isolotti, quando cala la notte o si alza la marea. E infine, nonostante i rischi, e nonostante nell’ultima parte della poesia Saba si riferisca ormai alla sua vecchiaia, nei versi finali egli scrive:

“Il porto accende ad altri i suoi lumi, me al largo sospinge ancora il non domato spirito e della vita il doloroso amore”.

Il mare diventa simbolo di una ricerca e di una sfida, del mettere alla prova se stessi e non accontentarsi di una tranquilla vita al riparo nei porti.

Tuttavia, in tutta questa abbondanza di impressioni e sentimenti e scritti e idee, come definire il mare? È il mare tranquillo delle vacanze estive o quello agitato dei temporali? È il mare che Virgilio vitupera o quello su cui si avventura Ulisse? Sembrano ossimori. E forse accettare la coesistenza di questi ossimori è un buon modo per definire qualcosa che altrimenti a ogni descrizione sembra mutare aspetto. Rinunciare a dargli un volto preciso, perché forse il mare è questo: la molteplicità, la metamorfosi.
L’unico elemento naturale che si trasforma d’aspetto e di significato come si trasformano anche gli uomini.
Imprevedibile e inevitabile, semplice e tuttavia custode di una profondità abissale.
Che ha accumulato nel corso del tempo un centinaio di storie e di nomi, e che nel corso di una sola giornata passa dal colore del cielo al colore del vino.

Francesca

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