Ispirandosi a un disegno di Michele (in arte Rosso Granata) Teresa ci racconta il dramma del rapporto dell’uomo con la morte, davanti alla quale si è spesso inerti. A questa nuova rubrica di racconti, si affiancheranno le recensioni di Valeria, sempre suggestionate dai lavori di Rosso Granata.
Che ci fai, tu, qui?
Sospeso nel vuoto, le gambe incrociate su una mano fluttuante.
Che ci fai, tu, qui?
Come mai non scappi?
Non senti che questa mano trema, che tu ci stai proprio nel mezzo?
Forse lo so, o almeno posso provare a indovinare.
Probabilmente, come tutti i giorni, stavi camminando: un cappotto troppo grande che dovresti cambiare, le scarpe (quelle rosse, quelle buone), un caffè per sopravvivere.
Capita però che tu, per un momento, ti fermi a guardare, vedi la città intorno: risuona tutta.
Noti una donna vestita di stracci con un passeggino immacolato – forse un sogno mai nato – segui con lo sguardo un sacchetto di plastica inclementemente ingoiato dai turbinii delle strade trafficate, t’accorgi di aver calpestato, per sbaglio, un fiore.
Tu, davanti a queste cose, ti blocchi.
Piccole cose alle volte, minuscole e grandi tragedie mondane: le perdite e le morti, insignificanti che siano, proprio come quel fiore – bocciolo troncato prima di vedere il sole -, ti paralizzano.
Rimani nudo, impotente. Tutto s’oscura intorno e ti ritrovi solo, sulla tua mano nera, nel tuo personalissimo gioco astrale. Quello è il luogo soffocante in cui sprofondi davanti alle cose che non comprendi, al dolore per il quale non puoi fare più nulla. All’inizio, cercavi di scappare.
Ti aggrappavi alle falangi giganti per cercare una via d’uscita. Gridavi disperato, ti coprivi il volto, ma non era in tuo potere decidere quando ricadere nel mondo, quello del tempo e del movimento. Accadeva (e accade ancora ora) quando all’improvviso una voce ti chiamava oppure quando un clacson suonava impaziente, vedendoti immobile sul ciglio della strada, intento a fissare due petali che già stanno marcendo.
La prima volta che ti sei ritrovato in quel mondo, nel mondo sospeso, è stato quando è morto il tuo criceto.
Non che facessi particolarmente caso alla sua esistenza quando era in vita, certo, come fa un qualsiasi bimbo di sei anni e mezzo. Ma quando la mamma ti ha preso le mani e ti ha raccontato che Tim se n’era andato, l’ineluttabilità di quella perdita, che ancora non comprendevi nella sua interezza ma intuivi soltanto, ti ha portato per la prima volta, per un istante, in quel primitivo marasma scuro, tanto incomprensibile quanto presente. È lì che finisci quando perdi le coordinate di un mondo sicuro e cristallizzato, quando, anche dopo anni, gli inciampi della vita ti lasciano inerme e sbalordito.
Poi sei cresciuto. Hai affinato la tua abilità nel richiuderti in quel mondo solo tuo.
Hai visto al cinema la guerra e la mano iniziava a prendere forma. Solo con il passare del tempo hai compreso il senso di quella dimensione tremenda.
Ti sei ritrovato sulla nera appendice molte volte nella vita: quando sei stato licenziato, quando hai perso l’occasione giusta, quando sei entrato in contatto, come tutti gli umani, con la mortalità e la fine, con le domande alle quali non ci sono risposte.
La caduta peggiore, però, è stata quando hai visto sfiorire, giorno dopo giorno, la ragazza dagli occhi grandi che quando studiavi legge stava sempre seduta due banchi dietro di te, e non hai saputo aiutarla. Troppe mani l’avevano sfiorata, non mani fluttuanti, ma mani in cui ancora scorre il sangue, ancora legate, in qualche modo, a una vita, a un corpo. Mani che feriscono, e che, lentamente, uccidono. Quando quella ragazza s’è spenta, spenta per mezzo delle sue stesse mani, spenta come una candela inghiottita dalla sua stessa cera, a un tratto ti sei ritrovato ancora solo e nudo, su quella fredda mano nera. Hai provato perfino a morderla, quel giorno, a strappare la carne di quel perverso luogo della mente, dal quale non sapevi come fuggire, dal quale non pensavi più di poter fuggire, tanto era il dolore.
Poi, inevitabilmente, sei cresciuto.
Sei stato solo e ti sei ascoltato, hai viaggiato e vagato, e anche se la laurea alla fine non l’hai presa, te la sei sempre cavata, in un modo o nell’altro. Hai conosciuto Sara, e lei è stata per te qualcosa di buono.
La mano, però, nonostante gli anni, gli aerei, le cadute, i libri letti, la vita nuova di Marta e Maria, t’attende sempre: davanti a un fiore, a una ruga, a una città distrutta o a due mani una volta vicine che ora si bruciano a vicenda.
Sei tu quello cambiato, tu che non la mordi, non ti divincoli, non cerchi di scappare da un luogo che ti è connaturato ormai tanto quanto le tue, di mani, quelle con cui appendi gli addobbi di Natale e accarezzi il cane.
Che ci fai, tu, qui?
Il tuo smettere di lottare non è una resa.
Il dolore del mondo ti porta lì quando lo incontri, e a volte ancora ti capita di cercare di distruggerla, quell’insanabile maledizione, ma ormai hai capito.
Ti siedi, nonostante il tremolio, e chiudi gli occhi.
Il dolore t’attraversa e tu lo lasci passare, filtrare e dilatare.
Quando torni nel mondo del tempo e del movimento fai un respiro profondo, scrolli le spalle nel tuo cappotto troppo grande, e continui a camminare.
Dietro te i fiori continuano a sfiorire, i sacchetti ad essere trascinati lontano, i passeggini a rimanere vuoti.
Non puoi mutare la natura del cosmo, la creazione e la distruzione.
Nonostante a volte il mondo sembri divorarsi da solo, proprio come quella ragazza dagli occhi grandi, fatta di cera, è abitando quella dimensione oscura che trovi in te la forza per continuare a stare in piedi.
Attraversi il marciapiede, ordini un altro caffè.
Non sarà forse questa una piccola, miracolosa, rivoluzione?
Teresa