Le montagne, per noi fotografate da Alessia, sono simbolo dell’immobilità. Ma, come ci racconta Francesca, sono anche il simbolo del sublime, del fascinoso timore che l’uomo prova davanti a questi giganti di roccia.
Davanti a me c’è la montagna. La guardo di tanto in tanto, nella speranza di estrarre una parola dalla sua muta impenetrabilità: un indizio, una definizione. Un aiuto, insomma. Per tutto il tempo che scrivo, le Alpi rimangono davanti a a me, senza fare un solo movimento. Ecco come sono le montagne, penso. Immobili. Imperturbabili. E indecifrabili.
Quando si è sulla cima di una montagna, si guarda il mondo della pianura in una prospettiva del tutto diversa. Dall’alto in basso, letteralmente. In Valtellina è facile rendersene conto, basta fare una gita al lago Palù o nei dintorni. D’improvviso, tutto ciò che di solito ti circonda risulta minuscolo, basta un dito della mano a coprire una strada e meno di un dito a coprire una persona che ci cammina su. Via che ti avvicini verso la cima, ad ogni passo che fai verso l’alto, sei sempre meno vicino alla terra e sempre più vicino alle nuvole. Anche i pensieri, come l’aria, sembrano rarefarsi, diventare più astratti, meno legati alla nostra vita di pianura. E’ come se salire significasse distaccarsi in parte dal mondo finito in cui ci muoviamo tutti i giorni ed accostarsi invece a quel preludio all’infinito che è il cielo.
Come nel quadro Viandante sul mare di nebbia, in cui un uomo voltato di spalle, sulla cima di una sporgenza, guarda un paesaggio avvolto dalla foschia, da cui emergono alberi, rocce e catene montuose. La confusione tra la nebbia e gli oggetti, la prospettiva dall’alto, le montagne sullo sfondo: tutto ciò contribuisce ad acuire il senso di indefinitezza e di infinità che il quadro trasmette.
Le montagne erano uno dei soggetti principali del grande pittore romantico Friedrich. Le montagne e anche il mare, perché entrambi rimandavano, uno per la vastità, l’altro per l’altezza, alla difficile tensione tra la natura limitata dell’uomo e l’universo illimitato che lo circonda. In generale il Romanticismo come periodo artistico si gioca spesso su questo concetto- e da qui nasce la cosiddetta sensazione del sublime. Sublime è qualcosa che ti fa paura ma allo stesso tempo ti attrae. Qualcosa che turba e allo stesso tempo esercita su di te un fascino innegabile.
Che è, più o meno, cambiando epoca e luogo, quello che accade anche nel manga La vetta degli dei di Jiro Taniguchi, adattato da un romanzo giapponese. Un fotografo, Fukamachi, in un momento di crisi, incontra per caso un leggendario alpinista, Habu Joji, di cui da anni si sono perse le tracce e, quasi stregato da questa figura silenziosa e che spira un’enorme forza di volontà, si mette a cercarlo. Ripercorre le sue tracce, ne studia le imprese, arriva a salire in alta montagna pur di arrivare a lui e a seguirlo fino alla cima dell’Everest. Ne emerge il ritratto di un uomo pronto a tutto per arrivare sulla vetta più alta del mondo: ha un pessimo carattere, una forte propensione alla solitudine, ma allo stesso tempo una determinazione incrollabile e una fedeltà al suo obiettivo che non possono fare a meno di catturare sia Fukamachi sia il lettore.
Non serve essere appassionati scalatori per amare questo libro. Perché la sfida di Habu è, in fin dei conti, la stessa che coinvolge un po’ tutti, ad arrivare sempre più in alto, a non accontentarsi di quello che abbiamo di fronte, a tendere sempre verso qualcosa. E la montagna, emblema di un mondo impervio, difficile da conquistare, eppure bellissimo, ne è la perfetta rappresentazione. Il libro comincia con la storia di Mallory, alpinista inglese morto nel tentativo di raggiungere la vetta dell’Everest, autore della celebre risposta: “Perché scalare quella montagna? Perché è lì.”
Habu replica: “Non è per questo che scaliamo le montagne. Non è perché la montagna è lì, ma è perché io sono qui”.
Francesca