De rerum natura

Dal particolare al generale. E’ con metodo induttivo che, negli ultimi mesi, Francesca ci ha parlato della natura. Dai suoi elementi fino alle conseguenze su cibo e risorse, per concludersi, oggi, con un articolo di riflessione generale. Ornato da riferimenti letterari e dallo scatto di Alessia, l’articolo termina con un importante auspicio: riflettere per diventare qualcuno.
Sono alla National Gallery e sto guardando le ninfee di Monet. Mi soffermo sul verde vivido e sul rosa che spicca a tratti, su quell’intreccio di colori e di luci da cui non riesco a staccarmi. Finalmente mi allontano, faccio pochi passi, e mi fermo di nuovo davanti ai girasoli di Van Gogh, e li osservo, il loro giallo pulsante di vita, le loro pose molteplici.
Quante opere d’arte sono state fatte sulla natura? Quanta musica, quante poesie, quanti libri sono stati ricavati, magari da una campagna illuminata dal sole estivo, o da un mare su cui si addensano nubi portate dal vento o ancora da una montagna innevata con i suoi giochi di luce tra la neve? L’arte è uno dei modi con cui l’uomo ha tentato di interagire con la natura, questa sconosciuta che ci circonda tutti i giorni e che ancora non riusciamo bene a definire. Che ci appartiene e non ci appartiene, che è parte di noi e di cui noi facciamo parte. E con cui non abbiamo ancora imparato bene a relazionarci, e di cui non sappiamo ancora bene cosa pensare.
Per alcuni, la natura è essenzialmente benigna nei confronti dell’uomo. Finché l’uomo vivrà con la natura non avrà niente da temere, e non subirà ingiustizie. Nell’antica Grecia un poeta di nome Esiodo ha raccontato il mito dell’età dell’oro, un’epoca felice, ormai passata, in cui l’uomo viveva in comunione col mondo: c’erano cibi e bevande in abbondanza e il lavoro e la fatica non esistevano. Un po’ come il giardino dell’Eden, ma sulla terra. E se ci si era allontanati da questo modello era, proprio come per l’Eden, colpa della malvagità umana. Qualcuno però dubitava di questo mito, qualcuno obiettava: e il freddo, e la fame, e i massacri, le stragi, le catastrofi che ci sono anche in natura? E se è la natura ha creato tutto questo, come fa ad essere benigna?
Lucrezio, un altro poeta, questa volta romano, descriveva il mondo naturale come il regno della legge del più forte. Un insieme di brutalità, miserie, lotta per la sopravvivenza e animalità da cui l’uomo si sarebbe distaccato per non morire, e che poteva essere dominato solo con la ragione.
Sulla scia di Lucrezio scriverà anche Leopardi, poeta-filosofo, intellettuale che ne sapeva sia letteratura che di scienza: dopo aver sostenuto da giovane che la natura fosse per gli uomini una madre benigna passerà alla tesi opposta, dirà che è una madre crudele e indifferente. Arriverà a chiamare la natura “la nemica scoperta del genere umano”. Eppure nel pessimismo dei suoi scritti emerge un atteggiamento che molte composizioni più ottimistiche non hanno saputo evidenziare: il fatto che l’uomo, nell’universo, sia un essere fragile, spesso smarrito e che dunque non si deve credere padrone del mondo. Qualcuno (esagerando) ha addirittura parlato di un Leopardi ecologista.
Leopardi, che della natura sentiva la bellezza e la spietatezza e che non sentiva (anche per ragioni storiche) la necessità di conservarla, non era ecologista. Ma lo era il poeta contemporaneo Andrea Zanzotto, quando in una sua poesia in dialetto friulano si riferisce a “quel de la ginestra”, cioè a Leopardi stesso. Fa finta di dialogare con la natura e riflette così su quanto la natura sia crudele, ma anche su quanto gli uomini sappiano essere crudeli nei confronti della natura. Dice (versi tradotti dal dialetto):
non ti abbiamo ascoltato da vicino, umilmente,
con amore, per quello che tu eri:
Una-certo-che poco di noi cura.
Ma che più ha fatto per il nostro bene- senza volerlo
senza saperlo- che per il nostro male, […]
Pensiamo che i morti del Vajont sono il doppio
di quelli che tu hai fatto adesso, tu terra.
Quanto grande può essere dunque la tua colpa?
Seppure la più grande tua colpa,
terra, non è quella di avere fatto noi, uomini.
Tragico, no? Però molto realistico. Tutta questa consapevolezza sull’ambiente e sugli uomini non serve a chiudersi in un pessimismo sterile, o peggio per ignorare del tutto la questione, ma per agire attivamente, per quello che possiamo, per ristabilire un equilibrio che forse si è perduto e che forse non ci è mai stato. E per apprezzare una bellezza evidente che nessuno di questi poeti ha mai negato. E la bellezza, anche se non può creare un mondo armonioso, apre degli spazi inediti per far risorgere questa armonia. Che cos’è in fondo, la bellezza, sia essa umana o naturale? Per me, è quello che riesce, anche solo per un secondo, a farci quadrare i conti, a farci capire qualcosa di più su quello che siamo.
Ho cominciato questa rubrica chiedendomi e chiedendovi perché avremmo dovuto metterci a parlare d’acqua, quando ci sono cose molto più urgenti a cui pensare. Potrei fare la stessa domanda riguardo alla natura. Perché parlarne? Perché leggerne? Perché sprecare tempo delle nostre vite sempre più impegnate a discutere qualcosa che alla fine non ci sarà mai di alcuna utilità pratica?
La risposta è che non è una questione di utilità.
E questo riflettere non ci serve a fare qualcosa, ma a essere qualcuno.
Francesca

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