Quando si diventa GRANDI? Oggi Daniele Nicastro ci parla del suo primo romanzo, GRANDE (Einaudi Ragazzi), incentrato sulla Sicilia, terra bellissima sconvolta dalla mafia. Perché essere grandi vuol dire avere il coraggio di parlare.
A uno scrittore conviene parlare di cose che conosce.
Forse è per questo che, dopo anni di ghostwriting, ho scritto una storia ambientata nella mia Sicilia, la Sicilia che conosco. Quella dove, da ragazzo, ero costretto ad andare ogni maledetta estate perché c’erano i nonni, gli zii, i cugini. Non importava cosa volessi fare io, ci si andava e basta. Oltre a qualche calcio al pallone e a qualche granita al limone, e alla bellezze della Valle dei Templi o della Scala dei Turchi, c’erano anche cose brutte: racconti sussurrati, problemi e frasi fumose del tipo “lo hanno arrestato” o “farà una brutta fine”. In una parola: Mafia.
Mafia è forse il termine italiano più conosciuto al mondo. Più di pizza, spaghetti o mandolino. È in tutti i dizionari e in tutte le enciclopedie di ogni paese, dall’America Latina all’Australia, dal Magreb al Giappone.
Allora ho richiamato alla mente le immagini delle stragi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino del 1992. Erano custodite in un cassetto della memoria dai miei quattordici anni, pronte a tornare a galla – certe cose non si dimenticano – per entrare a far parte dell’immaginario di GRANDE (Einaudi Ragazzi).
Nel costruire la trama del libro ho unito episodi personali e fiction. Ho dovuto documentarmi bene, – c’era già molto, di bello, sull’argomento – e cosa potevo aggiungere io a Luigi Garlando, Annalisa Strada e altri grandi nomi della letteratura per ragazzi? Ci ho pensato a lungo, e alla fine ho deciso di cambiare prospettiva.
Mi sono messo nei panni dei ragazzi che, spesso, venivano pescati a fare lavoretti sporchi per i mafiosi. Che cosa li attirava? Il denaro? Il brivido? L’indipendenza? Il desiderio di sentirsi GRANDI? Ho realizzato che si trattava di desideri comuni a tutti i ragazzi. Da minorenne, anch’io non vedevo l’ora di crescere bruciando le tappe, affrancarmi dalla famiglia. La pensavo esattamente come Luca:
“Non sono mai stato in un bar da solo e nessuno mi ha mai offerto da bere, mai. Lo fanno i grandi, per esempio quando escono dal lavoro e si incontrano con gli amici. E io non vedo l’ora di fare cose da grandi. Perché non sono più la «gioia di mamma», il suo «bambino». Sono cresciuto”.
Allora ho messo Luca in una situazione più grande di lui.
“Ieri la mafia era solo una parola da aggiungere alla combo arancini-cannoli-sole-mare, spiagge di sabbia fine, ricotta fresca, granita al limone. Era solo un’espressione così tipicamente siciliana da non farci caso. Oggi è diventata reale. La mafia c’è, la mafia esiste. Non è più materiale da TG della sera, da spot pubblicitario, da fiction di terz’ordine… Leggerne a scuola, studiarla sui libri, la rende lontana, mentre ora so che può essere così vicina da non sembrare vera. Almeno, a me non sembrava vera fino a poco fa.”
Ho spiegato ai lettori che verrà il momento, presto o tardi, in cui dovranno prendere una decisione importante e solo allora dimostreranno veramente di che pasta sono fatti. Se sono GRANDI solo all’anagrafe, o sono GRANDI persone. Volevo anche identificare la caratteristica alla base del pensiero mafioso: la prepotenza. In questo, mi sono lasciato ispirare dalle parole di un rinomato mafioso e collaboratore di giustizia.
“Quando mi presento a lei, lei deve sentire il mio peso e deve sentirlo velatamente. Io non verrò mai a minacciarla, verrò sempre sorridente e lei sa che dietro quel sorriso c’è una minaccia che incombe sulla sua testa. Io non verrò a dirle: le farò questo. Se mi capirà, bene; se no, lei soffrirà le conseguenze”. (Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone, luglio 1984)
Prepotenza. Potere. Ecco perché l’attività più famosa della mafia siciliana è il pizzo, l’estorsione. Ce ne sono molte altre, ma quella in un modo o nell’altro torna sempre, e allora ho studiato ancora di più, sono sceso in profondità per capire. Mi sono affidato a libri e articoli di Attilio Bolzoni, giornalista di Repubblica che da più di trent’anni racconta la Sicilia e la mafia, e ho avuto la conferma che cercavo.
Con l’estorsione, che a Palermo chiamano “messa a posto”, la mafia si manifesta e controlla il suo territorio. A seconda dei momenti e delle sue esigenze, spara o non fa rumore, fa accordi con lo stato o fa stragi, stringe rapporti con la politica o minaccia la politica, privilegia un certo tipo di traffici o ne sceglie altri. E comunque, qualsiasi cosa succeda e qualunque sia la sua strategia, fa sempre estorsioni: non smette mai di farle. Fa sempre la “messa a posto”. (Faq mafia, Bompiani 2010)
Ho riversato tutto nella mia storia, e la Sicilia è entrata con realismo nello scenario, negli intenti, nelle riflessioni, nelle risate, persino nel ritmo della storia. A un certo punto mi sono fatto qualche scrupolo. Mi sono chiesto: cosa penseranno di me i parenti, i siciliani, persone che nell’Isola del Sole ci sono nate e, pur conoscendone i problemi – che esistono ovunque, del resto – ne vanno giustamente fieri, orgogliosi, e la dipingono come un quadretto? Rischio di essere frainteso, criticato? Crederanno che parlo male della Sicilia? Perché la Sicilia non è solo mafia, ovvio, è tante altre cose, belle e brutte. Più belle che brutte. Dovevo tacere qualcosa? Smussare gli angoli? Poi mi sono detto che il grosso problema della lotta alla mafia è stato proprio il silenzio. “A megghiu parola è chidda cca nun si rici” dice un proverbio in dialetto. In pratica, stare zitti è meglio. Ma il silenzio rafforza i prepotenti. Col silenzio infatti non sarebbe mai accaduta la straordinaria vicenda di Addiopizzo.
Una mattina della fine di giugno del 2004, Palermo si è svegliata e ha trovato i muri delle strade tappezzati di adesivi con scritto: “Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Erano stati alcuni ragazzi che, qualche mese prima, avevano pensato di aprire un pub. E si erano fatti una domanda: “Se ci vengono a chiedere il pizzo, che facciamo?” E così, invece di aprire il pub, hanno messo insieme un certo numero di commercianti che non erano disposti a pagare, hanno invitato i palermitani a non comprare nei negozi “vicini” ai mafiosi. Ispirato da questa vicenda, ho deciso di non avere peli sulla lingua. Di dire tutto quello che pensavo, di tornare nei miei panni di pre-adolescente e buttare fuori la rabbia, la cattiveria, l’egoismo e l’indifferenza che mi macchiavano l’anima. Perché in ogni ragazzo o ragazza ci sono luci e ombre, istinti potenzialmente distruttivi, e quando si è arrabbiati, come il protagonista di GRANDE, è facile fare una cattiva scelta e cacciarsi in un guaio dal quale poi non si riesce a uscire. E in alcuni posti sono stato contestato. Una volta, descrivendo l’ingerenza della mafia negli appalti pubblici, sono stato attaccato da un’insegnante di sostegno del Veneto durante l’incontro con gli studenti. Secondo lei davo una brutta immagine del Meridione e fornivo informazioni errate. E invece…
“La mafia ingrassa con gli appalti pubblici. Dove c’è un lavoro o un cantiere ci sono sempre loro; dove c’è un impianto di calcestruzzo o una betoniera c’è sempre quell’odore di mafia. Da ragazzino mi dicevano che c’era un metodo infallibile per riconoscere i mafiosi: “Guarda le scarpe, hanno belle scarpe ai piedi ma sempre sporche di cantiere”. (Faq mafia, Bompiani 2010)
L’insegnante ha aspettato che finissi di firmare i libri per minacciarmi in un modo che mi ha ricordato le parole di Tommaso Buscetta: «Mio figlio ha avuto a che fare con la mafia, faccia molta attenzione a cosa dice.» Stava succedendo davvero? Ho ripensato alla questione del silenzio. Poi, qualche settimana dopo, nel paese dove abito, ho avuto conferma di aver fatto la scelta giusta, che la mia storia era in grado di toccare corde profonde e invitare altri a schierarsi dalla parte della legalità, della giustizia. Un ragazzo che aveva letto GRANDE e aveva partecipato attivamente all’incontro con l’autore, assistendo a un furto, invece di voltare la testa dall’altra parte – come tanti suoi coetanei – ha chiamato le forze dell’ordine. Più tardi ho visto i carabinieri infilare il criminale sul sedile posteriore dell’auto, girarsi e chiedere ai presenti se avevano visto qualcosa.
Con il ladro che lo guardava dritto negli occhi, il ragazzo dell’incontro ha alzato il braccio. «Io ho visto tutto» ha detto, «posso testimoniare.» Quelle parole mi hanno riempito d’orgoglio. Non ho la pretesa di avere avuto un ruolo determinante in una simile presa di posizione; no, il ragazzo – uno come tanti, con pregi e difetti, con poca voglia di studiare – aveva coraggio e forza d’animo di suo. Gli serviva solo una scintilla, qualcosa che lo aiutasse a riflettere. A non tacere.
A diventare GRANDE.
Daniele Nicastro