Una specie di elogio
Alzi la mano chi ama la solitudine. Se fossimo in una stanza piena di persone, probabilmente ne ci sarebbero un paio di mani alzate, o forse neanche una. Nulla di sorprendente. La solitudine non è per nulla gradevole. Produce malinconia, tristezza, isolamento. Che ci fa sentire irrisolti, incompleti, sbagliati, incapaci di entrare in contatto anche con le persone che amiamo. La solitudine sul medio periodo intristisce e sul lungo rischia di far impazzire. Siamo tutti d’accordo che la vera domanda non è se ci piaccia la solitudine, è chiaro che non piace; la domanda è, semplicemente, come evitarla. Fin qui tutto bene, no? Avevo appena cominciato a scrivere, convinta delle mie parole, poi però, rileggendolo, non sono riuscita a continuare. Qualcosa non mi convinceva. Avevo appena descritto l’immagine più comune esistente della solitudine, un’immagine malinconica, a tratti tragica, di esclusione e di tristezza, di qualcosa da evitare a tutti i costi e che nessuno sceglierebbe, se potesse sceglierlo. Questo genere di solitudine esiste ed è terribile- e tuttavia, è solo uno dei lati possibili di un’emozione molto più complessa.
Fabrizio De André nel suo elogio della solitudine diceva che non tutti se la possono permettere. Aveva ragione. Ci sono situazioni in cui davvero essere soli è una tragedia- poi ce ne sono mille altre in cui può essere piacevole e anche bellissima. Come diceva il cantautore, “sostanzialmente quando si può rimanere soli con sé stessi, io credo che si riesca ad avere più facilmente contatto con il circostante, e il circostante non è fatto soltanto di nostri simili, direi che è fatto di tutto l’universo: dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle”. In altre parole: la solitudine è libertà di dire e di pensare.
Di fare una pausa dalla propria quotidianità e contemplare sia il mondo attorno a noi sia il mondo dentro di noi. Le interferenze dei pregiudizi, dei commenti, della paura di essere giudicati, vengono meno. Da soli non dobbiamo fingere di essere nulla, se non quello che vogliamo, e possiamo scegliere cosa fare senza condizionamenti esterni. Ma forse, a pensarci bene, è proprio quello il problema.
Stare da soli costringe a fare i conti con una presenza scomoda: noi stessi. Rimaniamo faccia a faccia con i nostri giudizi, i nostri opinioni, le nostre decisioni- e tutta la fatica connessa ad essere qualcuno. Qualcuno, chi? Chi siamo noi, di preciso? Fino a che siamo in gruppo è facile dirlo, abbiamo un nome, abbiamo un volto, forse abbiamo anche un ruolo. Da soli, la percezione dell’identità diventa più fluida. In fondo, sappiamo bene di essere più del nostro nome e del nostro volto, come sappiamo che i nostri ruoli ci corrispondono solo in parte. E allora? Chi siamo, quando siamo soli? Siamo gli stessi, siamo di più, siamo di meno? Quali criteri sono rimasti per definirci? E non sono fastidiose, queste domande? Sì, lo sono.
Alla fine, per questa libertà di spaziare col pensiero, i potenziali effetti della solitudine sono molteplici. Può favorire continue peregrinazioni mentali e stimolare l’immaginazione. Può rendere distratti, con la testa tra le nuvole, poco attenti alla realtà concreta, può farci perdere tempo in labirinti di nostra invenzione e di nessuna utilità pratica. Può favorire intuizioni geniali o bearsi di idee di nessun valore. Può essere terribilmente noiosa o terribilmente interessante. Può farci desiderare di passare più tempo con altre persone, o farci passare la voglia di farlo. Può diventare un gioco o una dipendenza. Ecco, il punto è questo. Dalla solitudine, dal suo continuo fluttuare di idee, emozioni, ricordi, progetti, ambizioni, desideri, paure, invenzioni può nascere di tutto. Veramente di tutto.
Quindi sì, non hanno tutti i torti coloro che hanno paura della solitudine. Non hanno tutti i torti quanti dicono che ci si può smarrire. Tuttavia, non hanno neanche del tutto ragione. L’uomo è un’animale sociale, su questo siamo d’accordo. Però ciò non toglie che ci saranno sempre degli spazi di solitudine, degli strappi a questa rete di socialità, e non saper gestire quei momenti di solitudine è tragico tanto quanto essere costretti a stare da soli.
Questo nessuno ce lo ha mai insegnato. Si è preferito esorcizzare la solitudine come fosse un male assoluto piuttosto che imparare a riconoscerne le sfumature. Anche perché siamo davanti a qualcosa di difficile da definire e da raccontare: fare i conti con la solitudine significa anche fare i conti con l’ineffabile, con qualcosa che ci sfugge dalle dita, raramente con risultati visibili nella realtà concreta. Ma noi siamo anche questo ineffabile e questo silenzio, e varrebbe la pena ricordarsene, di tanto in tanto.
Francesca