Una sorta di critica
Dopo aver fatto una specie di elogio della solitudine, per par condicio mi sento autorizzata a fare una specie di critica dell’empatia. Mi sembra un esercizio paradossale- perché, sinceramente, chi è contro l’empatia?- e per questo estremamente affascinante. Il bello dei paradossi è che finiscono sempre per svelare qualche verità. Ma andiamo con ordine.
Voi ci credete, nell’empatia? Sembrerà una domanda strana, ma, sotto certi aspetti, non lo è. Empatia è una parola che va di moda, di recente. Sia per dire che sì, è indispensabile, salverà il mondo, sia per dire che no, non ci serve, se ne può anche fare a meno. Ma cosa significa, di preciso, questa parola? Per prima cosa, va distinta dalla simpatia. Simpatia, dal greco sin pathos, sentire insieme, mentre empatia è dal greco en pathos, sentire dentro. Quindi, in linea di massima, simpatia significa provare le stesse emozioni dell’altro, ma empatia è la capacità vera e propria di mettersi nei suoi panni. Secondo l’Atlante delle emozioni umane, l’empatia è “la sensazione di una ‘risonanza’ emotiva tra persona e persona […] La capacità di intuire la sofferenza altrui, e quindi di reagire in una maniera che avvicini l’altra persona invece di alienarla.”
Sempre secondo l’Atlante, recentemente di empatia si è cominciato a parlare anche nelle neuroscienze con l’introduzione dei cosiddetti neuroni-specchio. Durante una serie di esperimenti sul macaco rhesus si è scoperta l’esistenza di cellule che si attivano non quando le scimmie compiono un’azione, ma quando osservano loro simili compierla. La validità di questa teoria rimane una delle questioni più controverse degli ultimi decenni, soprattutto per quanto riguarda l’identificazione di questi neuroni negli esseri umani.
Tuttavia continuiamo a parlarne e continuiamo a crederci, perché è un’idea bellissima. Un’idea rassicurante, confortante, una di quelle scoperte che non ci fanno venir voglia di smettere di leggere o di ascoltare o di guardare, ma che, al contrario, ci fanno sentire un po’ più ottimisti sulle sorti del genere umano.
Dunque, voi ci credete, nell’empatia? Se l’empatia esiste, allora abbiamo un antidoto contro la solitudine forzata. Se l’empatia esiste, allora non è vero che ogni uomo è un’isola, allora è possibile la comunicazione reciproca, è possibile la comprensione, è possibile l’intesa. In altre parole, l’esistenza dell’empatia sarebbe la prova provata del fatto che moltissime nostre speranze sono realizzabili. Sarebbe stupendo. Wow.
E allora sono cominciati gli elogi sperticati, le liste su come diventare empatici in 5 semplici mosse, i quiz online su come riconoscere se sei una persona empatica e come migliorarsi in caso contrario. Solo che, in questo entusiasmo comprensibile e condivisibile, ci sono alcuni punti sull’empatia che sono stati trascurati. Immersi nell’ottimismo, ci siamo dimenticati di parlare dei lati negativi. Però, per essere (veramente) ottimisti, ci vorrebbe una visione chiara anche degli effetti collaterali.
Infatti ad un certo punto sono cominciati i discorsi contro l’empatia. L’approvazione assoluta ha creato reazioni di rigetto a volte inutilmente polemiche e provocatorie, a volte invece ponderate e interessanti. Ne dà una bellissima sintesi l’articolista del Guardian Oliver Burkeman, in un articolo riportato da Internazionale sotto il titolo Restiamo nei nostri panni.
La tesi è questa: per prima cosa, l’empatia, anche se apre ai sentimenti altrui, dipende largamente dal nostro modo di pensare. In altre parole, saremo più empatici nei confronti delle persone che ci somigliano di più, e via via meno empatici verso chi è diverso da noi. Quindi, è un’emozione che rischia di riprodurre i nostri pregiudizi. Solo che, se riproduce i nostri pregiudizi e le nostre opinioni, di fatto non amplia veramente la nostra visione del mondo né la gamma di emozioni da noi provate; non crea ulteriori collegamenti con altri esseri umani, ma rafforza solo quelli esistenti, magari escludendone altri.
Inoltre come rimarca Burkeman, “È difficile accettare che a volte potremmo avere una visione più chiara del mondo se resistiamo alla tentazione di metterci nei panni degli altri. Ma a volte evitare le personalizzazioni è il modo migliore per prendere decisioni.” Cosa vorrebbe dire? Questa è la vecchia (ma sempre attuale) idea che non ci fa bene essere succubi delle emozioni, né delle nostre né di quelle altrui. Rimanere lucidi e razionali non sempre vuol dire essere freddi ed insensibili, ma al contrario può permettere di agire con consapevolezza delle nostre azioni- e quindi, essere più utili agli altri di quanto non saremmo se ci facessimo paralizzare dalle loro emozioni e dalle nostre.
Tutto questo no, non è un’autorizzazione a dimenticarsi dell’empatia e vivere senza interessarsi dei sentimenti altrui. Al contrario è un’esortazione a prendere l’empatia sul serio, ad allenarla a superare i pregiudizi, ad elaborarla perchè non diventi un freno ma una spinta ad agire. Sul breve periodo è sicuramente difficile, ma sul lungo periodo è indispensabile per preservarla. Credendo all’empatia come a una panacea, qualora fallisse, la abbandoneremmo, ma se invece tenessimo conto dei suoi limiti, potremmo capirne molto meglio il valore.
Ed è un valore, anche in questi limiti, enorme.
Francesca