Felicità

Infelicità e felicità, sono, come dimostra anche la composizione delle due parole, l’una la privazione dell’altra. Ma, inevitabilmente, sono profondamente legate.
Così, per riprendere dall’articolo precedente, è comprensibile voler cercare la felicità ed evitare, per quanto possibile, di essere tristi, ma forse sarebbe salutare abbandonare l’idea che si debba essere sempre felici. Di recente questa sembra essere la strada imboccata, dalle immagini di perfezione e serenità che invadono i social network all’atteggiamento positivo e ottimista sempre più pubblicizzato anche in ambienti lavorativi. Ci sono luoghi di lavoro in cui dimostrarsi positivi sta diventando parte della policy aziendale — il sito della neroeditions ne offre un interessante spaccato, intitolato non a caso “Sorridi o muori”. Ma in ogni caso basta fare un rapido giro sul web per rendersi conto che la felicità sembra diventare un imperativo. E davvero categorico.
Il problema è che qualsiasi valore, anche positivo, quando diventa il centro esclusivo dell’attenzione di molti e l’unica bussola per orientare le proprie scelte, finisce sempre per degenerare.
La ricerca della felicità rischia di tradursi in una sorta di tirannia della felicità. Per contro, l’infelicità sta diventando la strada da evitare; la si considera di minor importanza, e nei casi più gravi quasi un baco, una colpa da emendare o una malattia da curare. Una visione del genere però, lungi dall’eliminare le emozioni negative, rischia di trasformarle in errori, perdendo quindi la possibilità di analizzarle, comprenderle e affrontarle a fondo. Il rischio nel sopravvalutare la felicità è di dimenticare tutte le emozioni che ne restano fuori, ma ignorarle difficilmente le farà scomparire. Senza contare che l’ultima cosa che si vuole sentire da tristi è l’esortazione ad essere felici. E che la felicità senza alternative, come tutto ciò che si protrae senza altra scelta, diventa noiosa e quasi soffocante. Si snatura, si perde. Quindi, imparare anche a non essere felici di fatto serve anche per preservare quell’animale raro e prezioso che è la felicità.
Nonostante ciò, la felicità resta una delle cose più belle che ci possono capitare. Ha  radici stratificate, è bizzarra, casuale, ama presentarsi quando vuole e senza motivi precisi e senza le ragioni che ci aspetteremmo. E noi la scegliamo solo fino a un certo punto, ma soprattutto la viviamo.
Proprio per questo considerarla come un dovere, qualcosa a cui adempiere, è uno dei modi più sicuri per rovinarla. Perché tentare di definire qualcosa di così difficile e ineffabile significa ingabbiarla, limitarla, non darle spazio per esprimersi.
Ma la felicità per crescere ha bisogno di tempo, di spazio, e di pazienza, ed è nutrita anche da ciò che così felice non è.In fondo come diceva Umberto Eco, “a lume di buon senso mi pare che nessuno di noi sappia dire che cos’è la felicità”.

Francesca

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