Se niente importa

Recensione del libro Se niente importa di Jonathan Safran Foer basata sulla rielaborazione personale di Valeria dell’opera Allevamento di Soldi di Arianna Romeri
Se niente importa, non c’è niente da salvare
Se niente importa è uno di quei libri che ti mette davanti con inquietante schiettezza dati, fatti e argomenti riportati a sostegno di una tesi apparentemente estrema in modo talmente ineccepibile da lasciare chiunque disarmato, profondamente turbato e forse anche un po’ imbarazzato per la propria inconscia irresponsabilità.
Al centro, uno dei temi più caldamente dibattuti negli ultimi anni, sulla scelta tra alimentazione onnivora o vegetariana, che vede spesso contrapporsi fra loro visioni fondate su una buona dose di astrattezza intellettuale piuttosto che su un’accurata analisi e verifica della realtà, per la quale si caratterizza invece questo saggio-inchiesta.
Jonathan Safran Foer, cittadino statunitense di origine ebraica, nonché uno dei più fecondi romanzieri americani, elabora quest’opera dopo tre anni di intense ricerche nell’ambito degli allevamenti intensivi che oggi rappresentano più del novantanove per cento delle fattorie animali. Quello che trapela fin da subito, è la non-volontà di essere un manifesto del vegetarianesimo-veganesimo, il quale potrebbe partire dal presupposto che mangiare la carne e i prodotti di origine animale sia di per sé di eticamente sbagliato; al contrario, la questione fulcro dell’opera “perché mangiamo gli animali?”, viene posta in altri termini e richiede qualità di onestà intellettuale, apertura e coraggio di mettere in discussione le proprie convinzioni per essere affrontata. L’autore, vissuto con la tradizione del cibo kosher, avverte fin da piccolo l’importanza simbolica e culturale dell’alimentazione, a lui trasmessa dalla nonna sopravvissuta alla Shoah, dalla quale proviene la citazione “se niente importa, non c’è niente da salvare”: secondo lei il cibo non è solo cibo, ma è “terrore, dignità, gratitudine, vendetta, gioia, umiliazione, religione, storia e, ovviamente, amore”.
La tradizione familiare lo porta inevitabilmente a porsi, appena diventato padre, l’interrogativo di cosa sia la carne, perché nutrire suo figlio è ancora più importante di nutrire se stesso. Vegetariano da anni un po’ per abitudine un po’ per formazione, con vari tentennamenti e poca convinzione di fondo, rimette in discussione il significato della propria scelta partendo dalle origini della storia degli allevamenti animali. Ripercorrendo i passi che hanno portato gli allevatori a concepire veri e propri campi di concentramento per bestiame, passando dal settore dell’avicoltura (polli e tacchini) a quello della pesca, della suini-cultura e infine quella dei bovini, Foer riesce a cogliere la lucida follia e il disprezzo dell’essere umano per la vita di esseri senzienti inermi e senza voce. Vengono inclusi nell’indagine i pochi allevamenti tradizionali rimasti, che a confronto di quelli intensivi sembrano quasi un paradiso terrestre per gli animali, liberi di vivere senza le sofferenze che vengono quotidianamente inflitte nell’altro tipo di allevamenti; questo potrebbe essere un sollievo, ma tenendo conto che meno dell’1% degli animali che mangiamo hanno questo “privilegio” ci sarebbe da preoccuparsi.
Ogni capitolo dell’opera è scandito da una grafica d’impatto che lascia sempre più sconvolto il lettore, con didascalie di dati che sintetizzano l’assurdità del sistema industriale animale.
Io, come l’autore, sono vegetariana da anni, con l’intuizione, ma senza la piena consapevolezza (fino a poco prima di venire inghiottita da questo libro) dell’impatto che il consumo di carne ha non solo sulle vite degli animali, ma anche sui consumatori stessi e sull’ambiente nella sua infinita complessità. Basti pensare che gli allevamenti intensivi sono la prima causa del riscaldamento globale e che ne contribuiscono per un 40% in più rispetto a tutto il settore mondiale dei trasporti nel suo insieme.
Nemmeno ciò che succede esattamente nelle fattorie industriali mi era ben noto, ma nel momento in cui si viene a conoscenza dei dettagli di pura violenza finalizzata solo alla massimizzazione della produttività e della rendita economica, ci si rende conto di quanto il male sia banalmente mascherato dall’idea che l’essere umano stia semplicemente eseguendo le leggi della natura, quando di naturale, negli allevamenti come sono concepiti oggi è rimasto meno di niente.
Conoscere l’indagine approfondita dell’autore, che si è immerso totalmente nella logica malata che ha portato l’uomo a passare dai metodi più “rispettosi” di allevamento, seppur infine destinati a trasformare in cibo – assolutamente non necessario alla vita umana – animali che possono essere paragonati ai nostri cani e gatti domestici, ai moderni allevamenti intensivi che riducono l’animale a un mero oggetto da sfruttare e abusare con un certo sadismo, è dal mio punto di vista necessario a rendersi conto dell’impatto che le scelte di ogni individuo hanno sul mondo.
Quest’opera non dà spazio a obiezioni sull’assurdità del sistema intensivo a cui siamo arrivati oggi e per questo non può lasciare indifferenti.
Valeria Delzotti

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