Scraps World, concept creato da Raffaele Cornaggia, è molto più che un semplice titolo: è un richiamo al legame fra uomini e natura, un mondo fatto di creature composte da rifiuti che prendono vita, una vera e propria filosofia per portare il proprio contributo del mondo. Raffaele Cornaggia, da 5 anni e già con vari successi nazionali e intercontinentali, porta avanti tutto questo, creando opere d’arte spettacolari solo a partire dai rifiuti. Qui, di seguito, ci racconta passato, presente e futuro del suo mondo. Grazie e buona lettura.
Come Raffaele Cornaggia è diventato Scraps World? Qual è stato, insomma, il percorso che ti ha portato a essere un artista apprezzato a livello intercontinentale?
Io sono completamente autodidatta e non ho studiato un solo giorno arte. Al di là della retorica, sono convinto che l’arte o ce la si sente nel sangue oppure non si sia altro che meri esecutori, replicatori, magari bravissimi tecnicamente ma privi di creatività e originalità: l’arte non si impara, si ha. Io ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia dove l’arte c’è sempre stata (mia madre era una pittrice di buon livello) mentre per quel che mi riguardava, a sentir parlare i miei professori delle superiori, l’unica qualità che avevo era il disegno. Dopo la scuola, a 18 anni sono partito per Londra e fino a 30 sono stato in giro per il mondo, sempre in contesti artistici e tra loro diversi. Dopo un anno a Londra, sono stato parecchi anni ad Amsterdam, e di lì in poi ho viaggiato fra San Francisco e Berlino. A 30 anni, tornato in Italia, ho fatto l’agente immobiliare, riuscendo a mettermi in proprio, gestire tre agenzie e guadagnare molto proficuamente. Ciononostante, dopo venticinque anni di lavoro, cinque anni fa, a seguito di un profondo rivolgimento nella mia vita (dovuto a una crisi personale su vari livelli), ho abbandonato il lavoro e iniziato a fare arte. Da agente immobiliare qual ero, la mia mansione era interpretare alla perfezione la legge e, dunque, seguire un percorso già tracciato; fare arte, invece, mi consente di essere libero, di muovermi quasi schizofrenicamente da una parte all’altra del mio laboratorio, consentendomi di seguire le mie idee senza cercare di controllarle. Testimone di questo cambiamento è l’aneddoto che ti racconto di seguito e che è stato l’inizio della mia esperienza artistica. Cinque anni fa, nel bel mezzo della crisi di cui ti ho appena detto, sento le notizie di due imprenditori suicidi. Spengo la tv, sfinito, e mi reco in cantina. Lì avevo tre computer vecchi dell’agenzia immobiliare da portare in discarica. Così ho preso il cacciavite e li ho smontati pezzo per pezzo. Sono rimasto talmente affascinato da quel rimpallo di luci, fili e colori, che ho provato a unirli, e da lì è nata la prima opera, realizzata con 1200 pezzi di computer (qui sotto, ndR). A realizzare l’opera ci ho messo un mese e mezzo, e una volta terminata l’opera, mi sono reso conto di essere stato bene per quella cinquantina di giorni, senza nessun pensiero o timore.
E questa passione, molte volte, è talmente forte e invasiva da farmi completamente perdere la concezione del tempo: quando vengo qui (l’intervista si è svolta nel laboratorio appena citato, ndA) alle dieci di mattina, lavoro finché non mi reputo soddisfatto, e molte volte, pensando di dover andare a pranzo, mi sono reso conto che erano le sette di sera!
Probabilmente per modestia hai omesso dalla risposta quelli che sono stati i tuoi successi locali, nazionali e intercontinentali. Potresti farci una breve panoramica?

Posto che credo che senza modestia non si vada molto oltre gli Young Signorino, gli Sfera Ebbasta, e tutti quegli artisti (anche nel mondo della pittura e della scultura) che si fanno chiamare tali quando il loro intento è palesemente commerciale, ma che sono del tutto privi di vera passione, non mi sottraggo alla risposta. Localmente la mia prima grossa esperienza si è avuta al Sondrio Festival, dove di fronte a una platea di 1200 persone sono stato intervistato da Marco Castellazzi, conduttore di Geo; a livello “nazionale”, se così si può dire, sono stato invece intervistato da Licia Colò, alla quale ho illustrato, in tre registrazioni nei suoi studi di Roma, scopi e intenti della mia arte. Su scala più globale, invece, scelgo uno fra i tanti aneddoti che ho la fortuna di poterti raccontare: consigliato da un amico, sono andato in Indonesia. Svegliatomi pronto per andare in spiaggia, mi sono imbattuto in una quantità spropositata di bottiglie di plastica e infradito. Ho fatto qualche pesce con le infradito e il proprietario dell’albergo mi ha offerto una settimana di vacanza gratuita se fossi rimasto lì a comporre opere con le infradito. Così, in quei giorni, io (che nel frattempo ero stato contattato dal WWF locale) e tanti altri ragazzi – i cui sorrisi mi danno molta più gioia rispetto a qualsiasi riconoscimento – di lì siamo andati a raccogliere rifiuti e infradito in giro per le strade, e, con loro, ho realizzato un’opera che ancora oggi è esposta all’aeroporto Bandara Komodo, vicino alla città di Labuan Bajo.
Quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a lavorare con i rifiuti? E che profitto trai tu da quest’esperienza?
Anzitutto c’è da dire che, per quanto non abbia alcuna conoscenza tecnica dell’arte ne ho sempre coltivato – come già accennato sopra – la passione, tramite disegni e (molto più di rado) dipinti. Personalmente però credo che, per essere un po’ tranchant, o si è Keith Haring, o si è Banksy, oppure con la pittura si possa dire ormai poco. I primi dipinti risalgono ai tempi della caverne, e dopo migliaia e migliaia di anni che l’uomo dipinge trovo che sia davvero difficile essere originali. Così non vale ovviamente per i rifiuti, che cent’anni fa non esistevano – non esisteva la plastica, che è stata sintetizzata successivamente. Questo è dunque il primo fattore: quest’arte mi consente di essere creativo, e, visto che siamo ancora nella preistoria di questa tipologia d’arte, di proporre cose originali e che sento come mie. Altro fattore è il risvolto ecologico (tant’è che unisco la mia passione per i viaggi di cui ti ho già detto): sento molto mio il tema, e cerco di portare il mio contributo alla Terra, madre di cui troppo spesso ci dimentichiamo. Ultimo ma non ultimo è il dinamismo cui accennavo prima: quest’arte mi consente di essere libero, vagare nel mio laboratorio dando adito a ogni idea che mi passa per la mente, e dopo venticinque anni da agente immobiliare è una vera liberazione.
Qualche mese fa, ho intervistato il collettivo di artisti Persone dentro, fuori e altrove. All’interno dei quattro, uno in particolare, Stefano Muffatti, mi ha parlato del suo processo creativo come di una nascita da un nulla, frutto di un processo emotivo, di una necessità di sfogarsi. La cosa mi pare simile anche per te. Cosa vuoi dire ai nostri lettori sul tema e più in generale su ciò che ti muove alla realizzazione di un’opera?
Sarò brevissimo. Nulla di tutto ciò che realizzo ha una base preimpostata. Le opere sono frutto della mia creatività, mosse dall’esclusiva passione. Ogni mia opera ha un senso all’interno del mondo che mi sono inventato: lo Scraps World è un mondo pacifico creato dalla mia fantasia, dove abitano solo creature costituite da rifiuti, una volta che l’uomo si sarà estinto, e che è perfettamente riassunto nella frase del mio profilo Instagram: traducendo dall’inglese, “quando gli umani e le risorse del pianeta finiranno, una nuova civiltà meccanica sorgerà dai rottami”. Ti faccio un altro esempio. In quest’opera – che mettiamo qui in chiusura di risposta e chiamata non a caso “Generazione post-atomica: bimbo con aquilone”, ndR – c’è un bambino con un viso iperrealistico che è posto sopra agli scarti della società, e gioca, elevandosi su di loro grazie a un semplice aquilone. Riuscire a lanciare messaggi forti facendo rinascere oggetti che le persone scartano è una delle cose che più mi rende felice al mondo.
Come definiresti, in poche parole, il tuo rapporto con le altre arti?
Meraviglioso. Soprattutto, mi piace incredibilmente scrivere – scrivo anche poesie e ci tengo a specificarlo, visto che in questo mese sul tuo sito il tema è particolarmente calzante – e ho composto, di quando in quando, dei racconti (durante e dopo) i miei viaggi.
Oggi sentiamo molto parlare di ambiente, e anche il nostro sito se n’è occupato in maniera indiretta parlando di natura e lo farà in maniera più diretta nel mese prossimo, raccontando dei grandi sommovimenti attorno a questo. Visto che ci hai detto – e la tua arte lo dimostra – di tener molto alla tematica, mi farebbe piacere se volessi portare un tuo contributo.
Credo purtroppo che sia un tema ultimamente abbastanza svilito e strumentalizzato. Artisticamente parlando, lavorare con solo parti meccaniche saldate assieme, come fanno alcuni, non ha alcun risvolto ecologico. E’ lavorare con la plastica, con i prodotti sintetici, che fa davvero bene al mondo ed è così che intendo portare il mio contributo, non con parole che spesso risultano fini a loro stesse.
Ora, se sei d’accordo, ti propongo qualche domanda più particolare e slegata dal tuo ambito specifico. Cosa sogna Raffaele Cornaggia per sé e per il mondo?
Per me è molto semplice. Sogno di poter proseguire su questa arte e su questo mio modo di vivere. Tutto qui.
Per il mondo, invece, desidero un ravvedimento, una presa di coscienza collettiva di far parte un sistema totalmente amorale, e una svolta verso un sistema dove le scelte vengano prese a partire dai valori e non seguendo il solo denaro, dove ci si possa sentire egualmente figli del nostro pianeta e fratelli del nostro prossimo. Ma, devo essere onesto, tutto fa presumere il contrario, e io non mi dico assolutamente ottimista circa questa possibilità. Ciò nonostante, tu mi hai chiesto un sogno per il mondo, e dunque dirò, senza mezzi termini, che sogno una nuova civiltà con un’altra cultura.
Se dovessi dare un consiglio a un giovane artista dubbioso sul suo futuro, cosa gli diresti?
Trovo fondamentale, e lo dico per mia mancanza personale, anzitutto la conoscenza, lo studio, l’approfondimento tecnico. Ma quello, come detto in apertura di intervista, non basta e non può bastare. Serve passione, moltissima; e originalità, per uscire dallo schematismo e dall’impostazione accademica, importante per chi è alle prime armi, ma assolutamente da abbandonare per chi vuole essere un artista vero e maturo.
Ultima cosa, con la quale chiuderei, è quanto segue: oggi – e lo vediamo tutti i giorni – l’ego spopola, l’immagine domina, le icone passano ben più dei contenuti. Qui su Bottega di idee, come chiunque legga saprà, cerchiamo di andare in direzione opposta. Tu come vedi, dal tuo punto di vista, il legame artista-icona e, dal nostro, questo tentativo di creare un forte legame tra la gioventù e la cultura?
La prendo un po’ dalla lontana: la mia arte è totalmente scevra da ogni genere di insegnamento, ed è perfettamente espressa dalla frase con la quale mi definisco sul profilo Facebook: “artista libero, spontaneo e indipendente”. Questi tre elementi sono forti segni di protesta contro un mondo sempre più di consumo e fruizione, tutto business e brand e zero cultura, originalità, apporto personale.
Più strettamente sulla tua domanda, quando un artista diventa icona (si pensi a Picasso, o Van Gogh), a me dispiace molto: più questo processo avanza, maggiore è l’esibizione del personaggio all’ignoranza, maggiori le banalizzazioni sulla sua figura, maggiori i rischi di attribuire a quell’artista cose che questi avrebbe rifiutato con forza.
Quello che fate voi è certamente lodevole proprio perché, come dici tu, avversa questa direzione, e cerca di creare un “mondo a parte”, dove uno scambio fra conoscenza e gioventù, che dovrebbe essere la radice del nostro futuro, diventa possibile.
Ed è proprio per questo che sono stato molto felice di aver contribuito alla vostra causa.
Federico