Gabbiani

Stella Cantelmi, fresca vincitrice del nostro Concorso Poetico, griffa qui di seguito una testimonianza dall’Inghilterra, proseguendo (dopo Nepal, Brasile, Lituania e Romania) la lunga serie dei nostri racconti  dal mondo

Non ho mai avuto un buon rapporto con i gabbiani. Quando avevo sette anni ho passato un pomeriggio intero a stilare una lista di modi in cui li si sarebbe potuti cucinare, dal gabbiano in casseruola al gabbiano in gelatina con contorno di sardine (prendi questo, vile pennuto! Sei finito in un piatto insieme a quello che volevi mangiare). 
Forse allora non ero ostile ai gabbiani, bensì alla noia che mi perseguitava nelle giornate trascorse in Liguria; ma rimane che se sono infastidita o devo lamentarmi di qualcosa, e nei paraggi ci sono dei gabbiani, me la prendo sempre con loro.
Si può dunque immaginare la gioia che ho provato quando, giunta nella ridente cittadina di Eastbourne e scesa dalla macchina che mi aveva portata a quella che sarebbe stata la mia casa per il mese successivo, il primo suono che ho udito è stato il verso di un gabbiano.
Era l’estate del 2016 e mi trovavo da poche ore in una terra straniera ma non troppo, priva di parenti di qualsiasi genere e piena di un entusiasmo che solo l’Inghilterra può ispirarmi. Il sole splendeva. Faceva caldo. Gli uccellini cinguettav- e invece no! I gabbiani berciavano e mi volavano intorno alla testa come avvoltoi, oscurando una giornata ben avviatasi.
Se credessi nei presagi mi sarei rassegnata a un mese di sventure, ma invece non ci credo e così ho ringraziato l’autista e sono andata con baldanza a suonare il campanello di quella graziosissima villetta.
Ad aprirmi la porta è stata Corinne, la mia host-mum; l’ha fatto sorridendo, come del resto faceva qualsiasi cosa. Suo marito, Stephen (“but call me Steve!”), è arrivato più tardi, quando avevo avuto qualche ora per innamorarmi della loro gatta e progettare per lei un futuro da acchiappa-gabbiani.

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Uno scatto della spiaggia di Eastbourne

Steve e Corinne abitano a quaranta minuti di bus dal centro di Eastbourne e a venti minuti a piedi dal mare, in mezzo a uno stuolo di villette a schiera. La mia camera, al secondo piano, aveva una finestra larga quanto la parete su cui si trovava; stando sdraiata sul letto mi era possibile vedere solo il cielo, che per chi vive in città circondato da palazzi da non meno di otto piani è un’esperienza quasi surreale. Quel letto, quella finestra e quel cielo mi infondevano una sensazione di pace totale, interrotta solo dal vociare dei gabbiani (sempre loro, maledetti).
Il mese che ho passato ospite in quella casa è senz’ombra di dubbio il migliore della mia vita. Ero capitata in una famiglia che mi voleva bene, avevo un lavoro in una libreria, ed ero in qualche modo riuscita a conoscere le uniche altre milanesi in vacanza lì; passavo le giornate tra lavoro, tazze di tè, Star Trek e conversazioni con Corinne sul sistema scolastico francese; Steve è uno chef, e anche se non mi ha cucinato un bel gabbiano in salmì ho – pare blasfemo a dirsi – mangiato meglio in Inghilterra di quanto non abbia mai fatto in Italia.
Quando si organizza un viaggio al di là della Manica, ci sono un po’ di faccende da mettere in conto: il cibo pessimo o quasi, la pronuncia snob che rende difficile la comprensione, la guida a sinistra, il brutto tempo perenne, la moneta diversa che ci metti cinque minuti a distinguere fra un pound e un euro perché ovviamente hai il portafoglio ancora zeppo di valuta italiana… 
Per la guida a sinistra non c’è stato niente da fare, ma sul resto sono rimasta piacevolmente sorpresa; mi piacerebbe dire di non aver mai generalizzato, di non aver mai avuto pregiudizi, ma alla fine è stato meglio averli e vederli crollare. 
L’unico a rimanere saldo è stato l’odio per i gabbiani; perché se è vero che a me non hanno fatto niente, ho assistito a numerosi furti di gelato da loro perpetrati, e questa non è una cosa che si dimentica facilmente.
La mattina del giorno prima del mio rimpatrio sono andata in spiaggia. Era una giornata soleggiata e ventosa; dei bambini giocavano nell’acqua; due signore avevano steso degli asciugamani sui ciottoli e tentavano di abbronzarsi. Al rumore delle onde si è aggiunto quello dei gabbiani, e mentre decidevo quali sassi fossero esteticamente soddisfacenti e quali no ho pensato a quanto sia falsa l’idea che, nel viaggiare, si lascino pezzi di sé ovunque si vada. Per come la vedo, è l’opposto: quando si viaggia si trovano parti di sé che altrimenti sarebbero rimaste sepolte. 
Un gabbiano mi si è avvicinato saltellando impunemente, come a reclamare il possesso di quel metro quadrato di spiaggia. Mi sono alzata e sono tornata a casa, perché dopotutto aveva ragione.

Stella Cantelmi

 

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