Dalla Francia alla Germania. Questo il penultimo volo che Bottega di idee prende questo mese. In questo articolo, Teresa ci parla della sua esperienza berlinese, e di un progetto di accoglienza di scottante attualità.
Oggi vi parlerò del mio incontro con quella creatura multiforme che è la città, grande formicaio tracciato dai rapidi percorsi solitari dei suoi ospiti, scandito dall’implacabile ticchettio degli orologi.
Il mio è il racconto di una ragazza che, armata unicamente di Google Maps, arriva in una palazzina nella periferia di Berlino e si ritrova a vivere per tre settimane in un centro ricreativo con ragazzi di tutto il mondo, con l’obiettivo di diventare in qualche modo una squadra e aiutare in un campo estivo per bambini stranieri.
Questo è il riassunto, per chi cerca di capire se il resto della storia varrà la pena o meno di essere letta.

Quello che penso sia importante raccontare, oggi, è la concretezza di ciò ho vissuto: la difficoltà quotidiana e sincera nel comunicare con persone con orizzonti culturali diversi dai propri, per dividersi il lavoro da fare o per decidere chi deve cucinare. Perché se l’incontro è difficile esso è necessario, per riuscire a convivere in venti in un salone troppo piccolo come per collaborare su questioni più importanti. In quei giorni ho visto come nella piccolezza dei gesti si racchiuda la chiave per più grandi obiettivi.
Allora anche mettersi a cucinare momos tutta la sera mangiando a mezzanotte ha la sua importanza, o inventarsi una cucina in corridoio quando salta l’elettricità, bere una birra al parco o fare i turni per la lavatrice e così, passo dopo passo, passare dall’estraneità all’appartenenza.
Dalla necessità della convivenza siamo arrivati all’inevitabile creazione di una comunità a cui il giorno in cui ho dovuto riprendere in mano Google Maps per tornare in aeroporto, non riuscivo a dire addio.
C’è però anche un’altra storia che volevo a raccontare e che ritengo necessaria soprattutto in questi giorni, dove uno straniero per l’ennesima, nauseante, volta viene rifiutato e chiuso fuori.
In queste settimane a Berlino, infatti, inizialmente ci siamo occupati di attività ricreative in un centro diurno, ma dopo pochi giorni ci siamo resi conto che noi volontari eravamo molti più delle effettive necessità del posto, e abbiamo chiesto di poter impiegare le nostre desiderose mani in qualcosa d’altro.
In un parco ricavato da un vecchio aeroporto in disuso, vi è un piccolo paese. Visto da lontano sembra fatto di Lego: una distesa bianca ed accecante di cemento dalla quale spuntano infiniti container. Il caldo rendeva invivibile quel piccolo villaggio, recintato e sorvegliato dalla polizia ad ogni angolo, il suo nome corretto sarebbe campo profughi. Per molti è la soluzione più simile ad una casa che hanno avuto da molto tempo: i bambini vanno a scuola, ogni famiglia ha il suo spazio privato, si crea solidarietà tra i vicini, ci si scambia storie e paure.
La ragazza che ci accompagna ci spiega che il campo è stato costruito per durare pochi anni, ma alcune famiglie stanno qua da molto tempo, i figli sono già integrati e non vi è un vero piano per il futuro di queste persone quando tutto verrà smantellato.

Essere rifugiati vuol dire questo: continuare a costruire e disfare, è instabilità e speranza, essere sempre pronti a rifare le valigie mentre si cerca una qualche parvenza di normalità.
Noi, lì dentro, abbiamo portato tempere, pasta di sale, palloni, bolle di sapone e, come in ogni sperduto angolo del mondo, portare gioco equivale a portare festa, divertimento, spensieratezza, lì più che mai necessaria, per quanto temporanea.
Un pomeriggio, abbiamo portato tre fratelli nigeriani in piscina. Dopo aver passato la giornata a non perderli di vista, a stare attenti affinché tenessero i braccioli, non si spingessero o perdessero, li abbiamo riportati a quella scatola di lamiera che per loro è casa.
Sono bambini portatori di uguali necessità: mentre sei in piscina li perdi di vista, alcuni fanno i bulletti, vanno a scuola, davanti a delle tempere si entusiasmano. Sono fatti di carne e di ossa, intrappolati in un sistema burocratico che ingabbia il loro futuro nell’incertezza del domani. L’ingiustizia che senti, mentre li fai passare per il cancello e li saluti, sorvegliati dalle guardie, non la so ben spiegare.
Ci allontaniamo, stancamente diretti alla fermata dell’autobus per tornare a casa. In lontananza su una rete metallica qualcuno ha lasciato una scritta, che fa insieme arrabbiare e alleggerire il cuore.

“Guarda che bello”
Guarda che bello, anche da qua. Guarda che bello, anche se vivo in una scatoletta di latta, guarda che bello, anche se faccio fatica a capirti, guarda che bello, anche se ora io torno nella mia casa e tu in quella distesa di cemento.
La bellezza è sempre qualcosa da cogliere con il nonostante, con la pienezza della distruzione e del dolore, accogliendo la consapevolezza dell’orrore e poi, dopo questo, nonostante tutto, non smettere di vederlo, quel bagliore. Non resta che rimboccarsi le maniche.
Torniamo a casa e inizia la corsa per arrivare per primi all’unica doccia che condividiamo, qualcuno grida “chi cucina questa sera?”, qualcun altro è già entrato nel baracchino per recuperare qualcosa da bere.
In quel formicaio, ora, ci ho scavato anche io un piccolo cunicolo, ho conosciuto strade e storie e quella creatura multiforme sembra quasi sorridermi, invitandomi a non dimenticare: guarda che bello.
Teresa