Je reviens, Pont-Aven

Ti racconto un quadro*

Ero solo un ragazzo quando lasciai Pont-Aven. Il villaggio aveva confini troppo angusti per me: era una gabbia dalla quale bramavo scappare. Non era abbastanza, per me. Volevo vedere la capitale, aggirarmi per le sue scintillanti strade, bere champagne in un locale straripante di artisti. Volevo essere uno di loro. Volevo che la gente amasse le mie poesie, che le imparassero a memoria e le citasse. Volevo dormire poco e condurre una vita dissoluta, innamorarmi ogni giorno di una donna appena incontrata per poi dimenticarmene il nome la mattina dopo. Volevo potermi perdere e ritrovare. Volevo semplicemente vivere una vita diversa da quella che mi era stata assegnata.
Non odiavo casa mia. Anzi, avevo accarezzato più volte l’idea di una tranquilla vita a Pont-Aven. Una vita di quelle destinate a cadere nell’oblio, fatta di abitudini: il lavoro, la famiglia, gli amici… Ma il fascino che la città esercitava su di me era tale da indurmi a cedere alla tentazione.
Per questo mi lasciai il villaggio alle spalle e andai a Parigi, convinto che lì avrei trovato quella vita che la Bretagna non mi poteva offrire. Ma, non appena l’eccitazione della novità scemò, capii di aver fatto il più grande errore della mia vita. Potevo porre rimedio, a tale errore? Certo: bastava tornare a casa. Ma il mio orgoglio m’impedì di fare le valige. Mi sarei sentito ardere di vergogna nell’incrociare lo sguardo carico di biasimo dei miei compaesani. E sebbene sia stato più volte sul punto di salire sul treno, senza una valigia, senza dire addio a chicchessia, non ne ho mai avuto il coraggio. Allora mi sedevo davanti alla stazione, guardando mestamente il via vai di persone. Invidiavo tutti, dai bambini che piangendo si aggrappavano alle gonne delle madri, ai gentiluomini che si affrettavano lanciando occhiate nervose all’orologio. Tutti, non importa quanto lungo sarebbe stato il viaggio, sarebbero tornati a casa, sarebbero sprofondati nella loro poltrona, circondati dai loro amati, e avrebbe trascorso una piacevole serata a parlare del più e del meno, senza affannarsi a cercare parole forbite per non sfigurare. Io invece mi ero condannato volontariamente a un doloroso esilio, addolcito appena dalle lettere che mia sorella mi scriveva.
Non avevo delle persone care alle quali tornare: me le ero lasciate alle spalle. Non avevo una casa pronta ad accogliermi, bensì un misero appartamento in affitto, con le pareti macchiate di umidità e le assi del pavimento che scricchiolavano a ogni passo. Un posto simile – pieno di spifferi e privo della cura che solo le donne sanno avere delle case – non poteva fare altro che nutrire il mio desiderio di poter tornare, un giorno, dalla mia famiglia, a Pont-Aven. E tale era il mio desiderio di poter scappare dalle vie caotiche della città da impedirmi di goderne appieno.
Durante questi anni, le persone mi hanno più volte definito nostalgico. In particolare, il mio amico Henri mi ha sempre schernito per l’aria malinconica che mi si dipingeva sul volto dopo un paio di bicchieri di vino, dicendo che un cane bastonato avrebbe certo sorriso di più. Ma come potevo sorridere, al pensiero che ero tanto lontano da casa? Come potevo gioire al pensiero che tutti i miei cari erano ancora lì, che s’incontravano, ridevano, scherzavano, mentre io potevo solo leggere ciò che stavano facendo e pensando giorni prima? Allora prendevo da parte una persona qualunque, e iniziavo a descrivere il villaggio. Descrivevo i dolci pendii, il bestiame che pascolava, il tetto di paglia della mia casa, la torre della chiesa che s’intravedeva da dietro. Quando ero ancora più sconsolato parlavo di mia madre, di mia sorella e di Agathe, la figlia del sarto. Pare anche che una volta mi sia commosso a tal punto da scoppiare a piangere sulla spalla di una donna che, senza batter ciglio, era restata lì a sorseggiare il suo champagne.
Una sera mi ritrovai in un locale insieme con dei pittori. Seduto al bancone in attesa del mio amico Henri, ascoltai parte della loro conversazione, inizialmente solo perché il loro tono di voce e la vicinanza mi rendevano impossibile ignorarli. Poi, quando alle mie orecchie giunse il celestiale suono di Pont-Aven, mi misi in ascolto spinto dal nostalgico amore. Ricordo che mi sentii profondamente offeso quando uno di questi definì i paesaggi rurali primitivi, del tutto estranei alla modernità. Strinsi addirittura i pugni e digrignai i denti, turbato dalle loro risate. Fino a che non mi resi conto che proprio con quelle parole avevo lasciato mia madre. Sciocco! Sciocco che non ero altro! Sciocco come tutti i giovani che credono di trovare chissà quale cambiamento lontani da casa loro, trovando solo il fallimento ad accoglierli. Sciocco ancor di più perché in nome dell’orgoglio mi ero imposto di non tornare al suolo natio.
Eppure ero stato a un passo dal non partire. E se lei – lei che mi aveva fatto esitare – non avesse detto quella frase, certo non sarei andato a Parigi.
Fossi un essere ancor più spregevole e vile di quanto già non sono, non esiterei a dare a lei la colpa di tutta la mia infelicità. Invece, allora come oggi, che sono passati anni da quel giorno e finalmente sto facendo ritorno a casa, non la incolpo di nulla. Anzi, continuo a pensare a lei con il cuore colmo di affetto, per quanto una vena di malinconia s’accompagni al pensiero del suo volto. Non oso nemmeno immaginare quanto diversa sia diventata nel corso degli anni. Il tempo avrà avuto pietà di lei? Fossi stato il tempo, mi sarei innamorato di quel viso e lo avrei preservato da ogni male, consegnandolo intatto all’eternità.
Mi ricordo ancora i pomeriggi passati ad ammirare Agathe dalla finestra della sua stanza. Lei sedeva lì per ore, intenta a cucire. Di tanto in tanto alzava lo sguardo e mi rivolgeva un timido sorriso. E quando il lavoro non era troppo oneroso e soprattutto suo padre non era in casa, mi avvicinavo alla finestra e parlavamo per qualche tempo. Lei mi scherniva sempre per la mia impazienza di andarmene dal villaggio e per quei versi che con tanto ardore le dedicavo. Diceva che la mia irrequietezza mi rendeva inaffidabile. Allora le rispondevo che per lei sarei potuto essere più che affidabile. Una lieve risata e un sospiro. Avrebbe voluto credermi…
Amavo Agathe. O almeno penso di averla amata. Era molto bella: aveva capelli dorati, occhi talmente chiari da variare dal grigio all’azzurro a seconda che il cielo fosse nuvoloso o meno, e guance rosee. Aveva una voce melodiosa come poche, tanto che spesso a messa la gente ammutoliva per poterla sentir cantare. Sì, penso di averla amata. Altrimenti perché avrei pensato di non partire e restarle accanto?
Lei mi amava. O almeno così mi piace credere. E se quel giorno lo negò, mi piace pensare che sia stato solo per non dare un dispiacere a suo padre, che mi aveva sempre denigrato come un nullafacente.
Ricordo ancora quel giorno. Era domenica. Il sole splendeva di quel suo pallore autunnale. Il vento pungente sibilava appena. Il cielo azzurro già s’era fatto più spento, quasi sapesse che a breve l’inverno sarebbe arrivato. Eppure, c’era qualcosa di magnifico in quel lento declino. Che l’inverno arrivasse pure: ero pronto ad accoglierlo.
Uscii dalla chiesa e mi fermai sotto una delle finestre, guardando le persone che lentamente scivolavano fuori. Non appena vidi Agathe, la salutai. Lei appoggiò l’affusolata mano sull’avambraccio della ragazza che camminava accanto a lei, mormorando qualcosa, poi mi si avvicinò. «Devo parlarvi», disse. «Penso che dobbiate smettere di venire sotto casa mia.»
Le chiesi il perché. «Perché? Perché è sconveniente che continuiate. Joseph, non ha senso che vi illudiate ancora.» Le rivolsi uno sguardo confuso, balbettai qualche parola. «Joseph, sono fidanzata.»
Le dissi che non capivo.
«Mi sposerò.»
Con un altro? Ma io l’amavo.
«Amarmi? Joseph, come potete parlarmi di amore? Ci conosciamo appena… Non potete amarmi. Non v’illudete più a lungo di quanto non abbiate già fatto.»
Non puoi amarmi. Ci conosciamo appena… Parole amare. Parole che mi colpirono con l’intensità di un colpo di pistola. Non ferirono solo il mio orgoglio, il mio amor proprio, i miei sentimenti in generale, perché io provai un dolore tanto acuto da non poter che essere fisico. Eppure sono certo che non intendesse nuocermi. Quelle parole le erano uscite di bocca con troppa facilità e naturalezza, non potevano essere impregnate di crudeltà. Perché sono le persone normali a lasciarsi sfuggire frasi d’odio, non gli angeli come lei. Lei era semplicemente convinta che mi avrebbe giovato.
Forse è vero. Forse ha fatto bene a spezzarmi il cuore. Ad allontanare da me l’unico ostacolo verso Parigi. Perché se non fossi andato via da Pont-Aven, me ne sarei pentito. Il fantasma di quello che sarebbe potuto essere mi avrebbe consumato, e con me il nostro rapporto.
Eppure, sono lo stesso stato insoddisfatto della mia vita. Lo sono più che mai ora che sto finalmente tornando in Bretagna, a casa. Vedo il paesaggio che mi scorre davanti agli occhi, mentre siedo su di un treno che avrei dovuto prendere anni fa. Tornerò in una casa nella quale sarei dovuto tornare anni fa, con la consapevolezza che quello che avrei potuto – e che avrei voluto – avere non sarà lì ad attendermi.
Ci ho pensato molto spesso, nel corso degli anni, a quello che avrei potuto avere a Pont-Aven. È stato ben triste rendersi conto che, alla fine, quello da cui sono fuggito era quello che volevo. E l’avrei potuto ottenere, forse, se solo non mi fossi fatto spaventare dal dolore per il rifiuto di Agathe. Chissà, forse se non fossi andato a Parigi, ora starei tornando a casa da mia moglie.
Posso anche vedere quello che sarebbe potuto essere: il cielo terso, il vento che accarezza i fili d’erba che muovendosi assumono riflessi tanto chiari da parere screziati di bianco, il sole che mi riscalda il viso. Posso immaginarmi la mia casa. Il tetto di paglia, come quando ero ragazzo, e i muri abbracciati da quella pianta di edera che quando me ne andai non era alta che un metro. Arrivando dai campi, potrei scorgere il tetto e il campanile della chiesa, quella stessa chiesa davanti alla quale mi era stato spezzato il cuore, ma nella quale avrei poi finalmente sposato mia moglie. E, ancora più in là, potrei vedere le altre case, i campi e gli alberi. Dopo aver ammirato il paesaggio, tornerei con lo sguardo verso casa. Osserverei le mucche brucare placide. Mi piace anche pensare che ci potrebbero essere degli alberi da frutto – mi era sempre dispiaciuto che non ne avessimo piantati alcuni. Soprattutto, mi piace pensare che qualcuno mi starebbe aspettando. Magari con l’aria un po’ spazientita perché ho fatto tardi, ma lo stesso pronta a perdonarmi e a chiedermi cosa ho fatto mentre ero via.
Avrei potuto essere felice, a Pont-Aven. Se solo avessi avuto pazienza.

Benedetta

*racconto finalista al concorso #tiraccontounquadro di Reader For Blind (pubblicato il 6 febbraio 2018)

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