Fuori è buio. Dentro, ancor di più.
È notte, credo. Guardo l’orologio. 03:33.
Ho gli occhi sgranati. Sono disperato.
Getto lo sguardo nel buio. Vedo qualcosa che non c’è.
Si muove pian piano, lentamente. Sembra partire dal mio collo. Vedo l’aria muoversi, sento il silenzio pesarmi, percepisco il sudore d’una fatica mai svolta. Sento una fitta che diventa fastidio, un fastidio che diventa sofferenza, una sofferenza che diventa dolore. È fra il cuore e l’ombelico, ed è fortissima. Lancinante.
Chiudo gli occhi, provo a pensare ad altro.
Sento qualcosa aggredirmi dalla nuca. Come fosse un alligatore, sento le sue fauci aprirsi prima e chiudersi, con la mia testa dentro, poi. Cerco i miei occhi, i miei capelli, la punta del mio naso. Non trovo nulla, non sento nulla. Un’infinita e irrefrenabile morsa assedia il mio volto, costringendolo. Riesco a stento a guardare l’ora. Le 03:37. Sono passati solo quattro minuti, mi dico. Provo a cambiare prospettiva. Quattro minuti sono duecentoquaranta secondi, mi ripeto. Ancora troppo poco. Non posso credere sia passato così poco tempo. Il dolore è troppo lacerante, tocca delle punte di parossismo, è tragedia senza morale, squallore senza ilarità. Dolore, puro e cristallino. Null’altro. Non rimane assolutamente niente.
Chiudo gli occhi, provo a pensare ad altro.
Ho una visione terribile, a tal punto da non riuscire a scriverne. Quando riapro gli occhi sono caduto dal letto, e quando me ne rendo conto mi ritrovo in posizione fetale. Sto piangendo.
Riesco ad alzarmi in qualche modo. Barcollo fino al bagno. Di norma, ad arrivarci, da camera mia, ci metto quindici secondi. I secondi divengono minuti. Barcollando e sbattendo ovunque, dopo quindici infiniti minuti, prego la porta di aprirsi nonostante la pochissima pressione esercitata sulla maniglia. E quella, da brava, si apre. Tiro un pugno all’interruttore e accendo la luce. Mi sembra più chiara del solito — so che non può essere così. Muovo le mani, ormai unica parte del corpo sotto il mio controllo, alla ricerca di un corpo che non trovo. È in notti come questa che mi rendo conto di quanto il mio corpo non esista. Sono alto oltre 180 cm e arrivo a stento ai 50 kg. Nonostante ciò, trovo da qualche parte la forza di vomitare. Lascio andare tutto il dolore nel lavandino, poi apro l’acqua e, aiutandomi con la punta delle dita, tolgo quello schifo da lì. Sento cedermi, tutto d’un tratto.
Apro di nuovo gli occhi. Guardo l’ora. 07:49. Sono sdraiato sul letto. Voglio muovermi.
Non riesco.
Sposto lo sguardo alla mia sinistra. Vedo del sangue e, di colpo, ricordo tutto. La sera prima, a causa di un motivo troppo personale per poter essere scritto, avevo passato, ripetute volte, le mie unghie sulla vena. E quella, dopo tanta (troppa) pressione, ha ceduto. Ha lacrimato sangue e ancora sangue, tanto che — penso — la pelle mi rimarrà scolorita a vita.
Non sento più quella fitta, quel fastidio. Nulla di tutto ciò. Sento tutta la mia inconsistenza, e, disperato, inizio a rantolare. Sento la vita lamentarsi di me, troppo disperata per poter essere arrestata; il dolore chiamarmi, troppo attraente per poter essere ignorato; il male diffondersi, troppo forte per poter esser vinto.
Ho una specie di sobbalzo, e mi ritrovo in ginocchio. Sussurro tutte le mie preghiere, quelle che nessuno ha mai scritto e che solo io conosco, per il semplice fatto che le ho scritte io. Le ripeto, compulsivamente, come un ossesso.
Ho le mani giunte, gli occhi chiusi.
Percepisco un chiarore diffondersi dinanzi a me. Guardarmi, per essere guardato.
Apro di nuovo gli occhi. Stavolta non guardo l’ora, stavolta non sento niente.
Né dolore, né disperazione, né morte.
Vedo una luce bianchissima con punte dorate e, per la prima volta, mi sento quasi in pace. Penso che se esiste un io che non sia il più spietato killer di se stesso, deve essere certamente lì. Davanti a me.
Mi cerco. Come sempre, non trovo nulla.
Guardo, a occhi chiusi, davanti a me.
Quella luce mi chiama, mi magnetizza.
Quella luce mi ama, mi ipnotizza.
Quella luce mi brama, mi paralizza.
Muovo le mani. Continuo, come sempre, a cercarmi.
Sento qualcosa. Non so cosa sia. Non l’ho mai sentito prima. Sembra un corpo.
Percepisco qualcosa spingermi da dietro.
Cado in avanti ed entro, per sempre o perlomeno per quel momento, nella luce.
Federico