Il 14 giugno, dopo la proiezione di Blue my mind, al Cinema Beltrade di Milano, prende parola Pamela Pace, elaborando un breve ma molto interessante discorso, pieno di richiami psicoanalitici e filosofici, sull’adolescenza. Federico, presente in sala, ha avuto l’onore, quattordici giorni dopo, di fare un’intervista alla Dottoressa Pace, che di seguito vi proponiamo.
Come è arrivata a essere una figura di spicco del mondo della psicologia? Quale percorso l’ha condotta sin qui e alla creazione del Pollicino?
Io ho incontrato il mio interesse per la psicoanalisi a 13 anni, perché mi venne regalato un testo di Freud, L’interpretazione dei sogni, che mi colpì moltissimo — per quanto possibile per una tredicenne, naturalmente. Avendo capito l’importanza di un lavoro su di sé, ho avviato un percorso di analisi personale all’età di 16 anni. La mia scelta andò verso la SPI, la Scuola Psicoanalitica Italiana: ho iniziato con un analista freudiano della SPI, con un’esperienza che ha avuto anche un peso in termini scolastici. All’epoca, rincorsi il professor Fornari, col quale volevo assolutamente laurearmi (cosa poi effettivamente successa, con una tesi sperimentale sull’anoressia mentale), prima a Lettere e poi a Filosofia, alle quali seguì la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica, diretta da Marcello Cesabianchi. Fornari mi chiese poi di entrare alla SPI per una vera e propria analisi didattica, ma non mi trovai bene con la persona che lui mi aveva indicato, perché del mio desiderio non c’era nessuna attenzione e nessun interesse. Questo fece sì che, gradatamente, a partire da una serie di miei dubbi fra cui i principali erano il taglio delle sedute e la non centralità del soggetto psichiatrico, questi due aspetti nominati (il tempo della seduta e la non centralità del soggetto) mi avvicinassero alla clinica lacaniana. Ciò grazie anche a una grande amicizia, a una grande intesa intellettuale, con il mio amico e compagno di studi Massimo Recalcati, al quale devo anche l’insistenza nell’avvicinamento a Lacan. Sono entrata all’inizio degli anni Novanta e ho fatte altre tranches di analisi — ma a questo punto lacaniane. In seguito, nel ’91, venni chiamata da Fabiola De Clercq per poter lavorare in ABA (Associazione Bulimia Anoressia), e in ABA costruii un trattamento dei genitori che potesse coniugare la clinica lacaniana con alcuni aspetti della teoria sistemica. Nel contempo aprii le porte a un gruppo di colleghi lacaniani — Massimo Recalcati, Domenico Cosenza, Fabio Galimberti — ma, dopo molto anni, con molto dolore e travaglio sono uscita dall’ABA (nella quale non mi riconoscevo più) nel 2006 per andare a fondare con una collega l’Associazione Pollicino e Centro Crisi Genitori Onlus, a partire dal doppio significante di accogliere la pre-occupazione genitoriale e di rispettare il soggetto nel suo sintomo, anche alla luce del grande aumento dei casi clinici nell’infanzia negli ultimi anni.
Ci fornirebbe una definizione personale della parola “disagio” e un piccolo ripercorrere storico, da Freud in avanti, di come sia mutato il concetto stesso e le declinazioni della parola?
Cercherò di essere sintetica, partendo dalla parola: dis/agio. Non c’è agio, o meglio non ci sono delle condizioni che consentano un certo tipo di agio. Freud ci ha dato una grande lezione con Il disagio della civiltà, che personalmente ritengo essere un testo immortale — e, di conseguenza, di grande attualità. Facendo una sintesi estrema, ciò che Freud sottolinea sono due concetti: il primo è che la civilizzazione, il progresso, il programma della civiltà che per forza cambia a seconda delle epoche storiche, produce le condizioni di un disagio generale per l’essere umano, proprio a partire dal fatto che il processo di inclusione nella società civile implica lo scendere a dei patti; il secondo è che il sintomo è sempre un sintomo sociale. Il disagio diffuso oggi mette molto in evidenza, come ci ha ricordato Bauman, che ha dato molto rilievo agli effetti dell’iper-individualismo, quindi alla liquidità dei legami. Altro punto fondamentale del sociale dei giorni nostri è l’intollerabilità del diverso, cioè l’intollerabilità dell’incontro con l’alterità dell’altro — sia esso un migrante, un anziano, o un soggetto che porta un handicap. Oggi, una certa estetica ha acquisito un valore etico, e fenomeni come il bullismo e cyberbullismo testimoniano come, a volte, la violenza si dalle dimensioni del corpo, dal modo di vestire, non adeguati all’ideale estetico sociale.
Un pensatore che mi è molto caro, Edgar Morin, diceva che il più grande morbo della scienza è lo scientismo. Sappiamo che, nel 2019, una visione quantitativa del soggetto sia sovente ben più in voga di una che metta, secondo la visione psicoanalitica, il soggetto e le sue necessità al centro. Come, da psicoanalista, trova questa visione e che conseguenze ne deduce?
Anzitutto c’è da dire che gli -ismi tendono a individuare correnti che scivolano in ideologie. Lo scientismo non ha necessariamente a che fare con le importanti conquiste della scienza. Chiarito questo, le rispondo facendo riferimento a un mio grande amore, che è Nietzsche. Credo sia bene che la politica della psicoanalisi colga il monito importante di Nietzsche, e cioè di non stare all’opposizione, ma di stare dentro: nella seconda delle Considerazioni inattuali, Nietzsche ci fornisce strumenti che ritengo preziosi. Non cedere sul proprio desiderio, sulla propria adesione alla causa, alla trama inconscia, ponendo sempre e comunque il soggetto al centro.
“Amare è dare ciò che non si ha a chi non lo vuole” è, personalmente, la frase che meglio descrive l’amore per come è. Può illustrare a me e ai nostri lettori questa massima di Jacques Lacan?
Questa convinzione di Lacan è al centro della domanda d’amore, della fenomenologia dell’amore: amare implica il desiderio. Il desiderio è sempre desiderio del desiderio dell’Altro — avere, cioè, un posto unico nel desiderio dell’altra persona. Se al cuore dell’amore c’è il desiderio di essere desiderati, è solo mancando all’Altro, è solo occupando per lui il luogo di qualcosa che gli manca, che io posso desiderarlo ma soprattutto essere amato, avere un posto nel suo desiderio. Nello specifico Lacan lo articola in maniera eccelsa nel Seminario IV e nei Complessi familiari, laddove articola la questione dell’amore e del desiderio di una madre: ecco cosa significa “presentarsi a mani vuote”, cioè offrendo la propria mancanza.
L’ultima domanda è in realtà bipartita. In prima battuta, vorrei utilizzare la duplice Lettera all’anoressia scritta da Gaia, per porle un interrogativo su come il narrare, e il narrarsi, possa essere di profitto. La seconda invece è domanda consueta con la quale chiudiamo le nostre interviste, e cioè una sua opinione su ciò che è Bottega di idee, ossia un tentativo di avvicinare i mondi dei giovani e della cultura.
Sulla prima stimolazione specifico anzitutto che la mia risposta non vuole essere una risposta a Gaia, ma è volta alla generalità dei casi. In quanto analista, credo sia molto importante che ci possa essere la spinta a poter esprimere i propri vissuti attraverso la parola, che questa sia scritta od orale. Consegnando la propria parola a uno scritto, non di rado un soggetto può prendere la parola rivolgendosi a un altro, a patto che l’altro ci sia e sia disposto a un ascolto non pregiudiziale e non giudicante, ricollegandomi anche a un mio recente scritto — La parola muta, 2017, San Paolo Edizioni —, laddove ritengo che ancor oggi i soggetti in sovrappeso siano del tutto orfani di un vero ascolto.
Per rispondere alla seconda mi aiuto con Pasolini, il quale sottolinea come la speranza, l’ottimismo, che coincide con la possibilità di risorgere o comunque di uscire da periodi di stagnazione, riguardi proprio la possibilità di dare spazio ai giovani. In un’epoca di impoverimento e di svalorizzazione della parola, in una continua celebrazione di tutto ciò che non è cultura, dati i pochi riferimenti simbolici e intellettuali presenti oggi, io credo moltissimo nella volontà di farsi sentire e nel rivendicare la preziosità della cultura e della circolazione delle idee. Ben vengano, dunque, tentativi come il vostro, che muovono verso questa direzione.
Federico