L’intervista – Domenico Letterio

Federico, nella programmazione di questo mese dedicato al disagio, ha avuto la possibilità di incontrare il Dottor Domenico Letterio, responsabile di Jonas Sondrio, nella sede dell’istituto di ricerca CODICI, a Milano. In quest’intervista, il Dottor Letterio fa nuova luce sulla tematica, tra spunti biografici e chiarimenti teorici.

Tu sei psicoanalista, responsabile di Jonas Sondrio, alla cui presentazione ufficiale ha presenziato Massimo Recalcati. Come sei arrivato al punto in cui ti trovi ora e secondo quali tappe?
Intreccio il mio percorso singolare e biografico con quello collettivo dell’istituzione che è stata da poco creata, Jonas Sondrio. In fondo, si è trattato di una lunga serie di incontri. Il mio primo percorso di studi mi ha portato a formarmi come filosofo politico. Ho fatto il Liceo Classico a Sondrio, dove ho avuto un incontro folgorante con un docente che, grazie alla sua passione e al suo modo di insegnare, mi ha orientato verso il sapere filosofico. Mi sono iscritto all’università a Bologna, dove ho avuto un altro incontro fondamentale, con Sandro Mezzadra, mio docente di Filosofia Politica e senza dubbio uno dei miei principali maestri. Nei testi di alcuni dei filosofi che frequentavo in quegli anni ho incontrato per la prima volta il nome di Jacques Lacan. In un periodo di disorientamento “esistenziale” avuto dopo il dottorato in filosofia politica, ho avviato un’analisi personale di impronta lacaniana, e lì ho accantonato il percorso filosofico per dedicarmi alla psicoanalisi, con tutto ciò che ne è conseguito. Mi sono formato alla psicoanalisi a Milano, e tra tutti i luoghi di formazione che ho frequentato, Jonas è stato senza dubbio quello più decisivo. Ho avuto l’idea di dare vita a un centro Jonas a Sondrio alcuni anni fa, prendendo in mano il testimone di un processo di filiazione che ha visto nascere, nel corso degli ultimi anni, quasi trenta centri in tutta Italia. La nascita di Jonas Sondrio non sarebbe mai stata possibile senza l’incontro con i colleghi che si sono uniti a me in questa avventura. A febbraio scorso abbiamo inaugurato la sede con una conferenza di Massimo Recalcati, ma il nostro lavoro clinico in città è iniziato già più di un anno fa.

Personalmente conosco (per quanto rozzamente) quello che è l’orientamento di Jonas e ciò che Lacan dice riguardo dell’esperienza clinica e del soggetto, ma non è detto che per tutti i nostri lettori sia così. Puoi dirci qualcosa a riguardo?
Parto da alcune coordinate spazio-temporali. Jonas nasce nel 2003 a partire da un’idea e grazie a un atto fondativo di Massimo Recalcati. Nasce a distanza di circa un secolo dall’invenzione freudiana della psicoanalisi, e porta una propria proposta in rapporto alla psicoanalisi stessa. I riferimenti clinici e teorici fondamentali rimangono per noi quelli di Freud e di Lacan, ma proviamo a declinare la nostra pratica a partire dalla lettura che noi diamo della contemporaneità. È importante sottolineare l’attualità e l’importanza dell’essere attuale della psicoanalisi. Se Freud leggeva nel sintomo isterico una dimensione di inibizione in rapporto alla sessualità, oggi tale dimensione è quasi del tutto scomparsa. I sintomi con i quali ci confrontiamo oggi non sono effetto di una repressione, ma viceversa sono espressione di un diverso imperativo, il “godi!” imposto dal capitalismo contemporaneo. Il nostro lavoro clinico è sempre strettamente connesso al tentativo di capire in che società viviamo.

Ci hai appena detto che l’incontro con la psicoanalisi non era qualcosa che ti aspettassi. Se un ragazzo si trova fra le mani un testo di Freud o di Lacan, come deve approcciarlo e secondo quale metodo, se ce n’è uno?
Nella mia esperienza l’incontro con Freud e Lacan è avvenuto a partire da un’esperienza soggettiva e non dal desiderio di sapere qualcosa del loro pensiero. A un certo punto della mia vita mi sono imbattuto nel desiderio di saperne qualcosa in più del mio desiderio inconscio. Non è certo un caso, ma l’ho capito solo a posteriori, che i primi testi di psicoanalisi che ho approfondito fossero inerenti al sintomo anoressico-bulimico. A partire dalla mia adolescenza, sono stato per molti anni vegetariano, e in ciò che Recalcati scriveva sull’anoressia ritrovavo paradossalmente molte cose del rapporto che avevo io stesso intrattenuto per anni con il cibo. È quindi la dimensione della mia soggettività ciò che ha aperto per me una via di comprensione nella psicoanalisi. Non credo quindi che esista una formula corretta per “entrare” nei testi di Freud e Lacan, ma credo, in definitiva, che tutto dipenda dal seguire le proprie questionie dal ritrovarsi all’interno dei testi.

La tua materia di specializzazione è la matrice anoressico-bulimica. Nella fattispecie, mi interessa una cosa che ho chiesto alla Dottoressa Pace: sul nostro sito si ha sempre la possibilità di parlare di un proprio disagio. Immagino ti sia imbattuto nelle due Lettere all’anoressia di Gaia: la prima che muove da un “cara Anoressia, ti odio” e che viene superata, nella seconda stesura, con un “cara Anoressia, ti ringrazio”. A me interessa chiedere dunque l’importanza della scrittura, del narrarsi, come metodo clinico, da aggiungere, da includere o a cui dare nuova luce in un percorso clinico. Tu come la vedi?
La scrittura è uno strumento molto prezioso per me, le lettere e la letteratura hanno sempre giocato per me un ruolo fondamentale. La lettera ce l’ho fin nel cognome (Letterio, n.d.A.) e il fatto che entrambi i miei genitori fossero insegnanti di Lettere non credo sia rimasto senza effetti su di me. Nella clinica utilizzo spesso lo strumento della scrittura: difficilmente chiedo io di scrivere, ma accolgo sempre con slancio e positività le eventuali proposte dei pazienti. C’è poi da tracciare un distinguo: un conto è l’uso clinico dello scritto nella terapia, un altro è uno scritto che viene pubblicato. Per alcuni pazienti, farsi un nome mediante la scrittura è qualcosa di fondamentale. Basti pensare a quello che Lacan scrive di Joyce. Più in generale, io credo che ogni percorso analitico sia fondamentalmente una scrittura, o, ancor meglio, una riscrittura della propria esistenza. E questo anche se non si utilizza lo “strumento” della scrittura vera e propria. Un’ultima riflessione. Nei due scritti da te citati, e che ho letto, manca il “cara anoressia, ti amo”. È il testo che potrebbe essere scritto dalla maggior parte delle anoressiche, perché nella gran parte dei casi, e soprattutto in quelli più gravi, il soggetto non vuole veramente “guarire” dal proprio sintomo. Nei casi più gravi, il soggetto ama la sua maledizione, l’anoressia appunto. Mi viene in mente una paziente apparentemente “guarita”, dopo un percorso di cura in comunità, che manifestava tuttavia una spinta suicidaria davvero difficile da controllare. Questo frammento mostra bene come l’anoressia possa essere un elemento di compensazione fondamentale, l’unica identità che un soggetto riesce a trovare. Tolta quella, rischia di non esserci null’altro.

Una breve domanda per chiudere questo capitolo: dall’anoressia si guarisce? Se sì, come; se no, perché?
Sì… e no. La gran parte dei percorsi di cura parte dalla richiesta di qualcun altro, sovente il genitore. Non si guarisce se si pensa che la guarigione sia il togliere il sintomo, approccio questo in cui noi non crediamo; assolutamente sì, si guarisce, se nel percorso analitico si riesce a fare un “giro” più lungo: se, cioè, l’analisi è in grado di riprendere alcuni inciampi fondamentali che ci sono stati nella vita del soggetto — dal rapporto con la madre a quello con la sessualità, che sono quelli che incontriamo più spesso — e di vederli sotto nuova luce, allora la guarigione è possibile. Ma si produce sempre, come diceva Lacan, “in sovrappiù” rispetto al guadagno di sapere su di sé.

Cambiando argomento, oggi (19 luglio 2019, n.d.R.) ci troviamo in Via Sondrio, 3 (Milano), sede dell’istituto di ricerca CODICI. Cosa ci puoi dire su questa istituzione e perché è connessa alla tua figura?
Nella mia vita professionale cerco di tenere insieme due polarità, che ritengo complementari ed essenziali nella costruzione del mio punto di vista sul mondo e sull’essere umano. Da un lato la clinica, su cui ci siamo soffermati finora, dall’altro il mio interesse per la politica e per la società in cui viviamo. Qui a Codici, istituto con cui collaboro da diversi anni, ci occupiamo di ricerca sociale: dovendo semplificare al massimo, i due poli su cui lavoriamo sono il tema delle migrazioni e quello dei giovani. Sono temi che mi appassionano molto, e vedo il percorso clinico e quello di ricerca come strettamente intrecciati, l’uno volto ad arricchire l’altro.

Ci forniresti una tua definizione del tema del mese, il disagio, portando anche una riflessione sull’incredibile tangibilità del disagio, singolo e di massa, che oggi è riscontrabile?
Ogni possibile riflessione sul disagio, per chi lavora in ambito psicoanalitico, parte inevitabilmente dal Disagio della civiltà freudiano, nel quale l’autore ha la grande intuizione di vedere che a produrre il disagio è la civiltà, nella misura in cui impone al soggetto una rinuncia pulsionale. Il soggetto è costretto dalla civiltà a rinunciare a una quota della propria soddisfazione pulsionale. Questa quota è ciò che il soggetto paga per entrare nella società. Il soggetto si ritrova, dunque, a inseguire questa perdita. Nella clinica contemporanea, per come l’abbiamo concepita a Jonas a partire dai primi anni Duemila, avviene qualcosa di diverso. Nel soggetto non c’è sottrazione di godimento, ma piuttosto un suo eccesso. La società contemporanea non chiede al soggetto di rinunciare al godimento, ma piuttosto, come abbiamo già visto, gli impone di godere. Oggi, o meglio in questi anni, siamo, io credo, in una fase ancora diversa. I sintomi che incontriamo più di frequente nella nostra pratica clinica non sono più soltanto, né principalmente, i sintomi della società iperedonista degli anni Novanta (anoressie-bulimie, attacchi di panico, dipendenze), ovvero sintomi in cui in primo piano c’è un godimento in eccesso, ma sono piuttosto nuove forme di depressione, di isolamento, di autoreclusione. In queste nuove forme del sintomo non c’è pulsione in eccesso, ma piuttosto un ristagno della pulsione sul soggetto, con la creazione di nuove forme depressive che vent’anni fa non c’erano mentre oggi abbondano. Basti pensare, per quanto concerne gli adolescenti, al fenomeno dei cosiddetti hikikomori. Recalcati, da questo punto di vista, sta lavorando su quel fenomeno clinico contemporaneo che lui definisce come neomelanconie. Ciò che rende queste forme di sofferenza particolarmente significative è il fatto che si presentano come un fenomeno del tutto nuovo e inatteso. È una sfida per noi di Jonas riuscire a trovare delle modalità di cura per queste nuove forme di sofferenza.

Questo blog, come sai, è un tentativo di avvicinare sempre più i poli (sinora fin troppo opposti) di giovani e cultura. Il prendere parola, come dicevi tu, è senz’altro molto utile, sia per il singolo sia per la collettività: cosa ne pensi, dunque, di questo tentativo e cos’altro vuoi aggiungere sul tema?
Il blog è molto bello. L’ho guardato con molta attenzione e lo trovo davvero ben fatto, soprattutto perché è molto chiara la passione che ne sta alle spalle. Trovo un punto di contatto con la mia esperienza nel momento in cui, in te come in me, vedo forte la necessità di fare cultura, di creare dibattito, di prendere la parola. C’è un parallelismo tra il lavoro da voi promosso con il vostro blog e la nostra decisione di dare vita a Jonas Sondrio. Io ed i miei colleghi avremmo potuto aprire uno studio privato di psicoanalisi, ma abbiamo deciso di dare vita a un’istituzione. Perché questa scelta? La ragione per me è molto semplice. Non è più il tempo in cui lo psicoanalista può rimanere rinchiuso nel suo studio ad aspettare che i pazienti bussino alla sua porta. Lo psicoanalista deve uscire, deve parlare alla città. A me è sempre stata molto cara un’immagine di Freud, che disse che l’inconscio deve essere dissodato. L’inconscio, come la terra, è nulla senza un lavoro di dissodamento. Questo è il lavoro che ci proponiamo di fare con la nostra nuova istituzione. È un lavoro culturale. Lo psicoanalista prende la parola nella città, per dire, come diceva Lacan, che la psicoanalisi è un’opportunità di ripartire. Prendere parola nella città, nel mio come nel tuo caso, credo che sia davvero prezioso. È l’opportunità di dar vita a un incontro, da cui far germogliare qualcosa di nuovo.

Federico

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