Quando il disagio si colora d’arte
Fin da quando sono piccola – e quindi facile preda delle domande esistenziali che già i primi anni di vita richiamano nelle menti dei bambini — ho sempre trovato curiosa nell’uomo la sua tendenza a proiettarsi nel futuro, che sia il suo personale o quello degli altri.
“Che scuola frequenterai dopo?”
“Cosa farai da grande?”
“Dove andrai a lavorare?”
In questo modo, l’essere umano, sempre tremendamente preoccupato a preoccuparsi, spesso si scorda del presente per vivere nell’interrogativo del dove, del quando, del perché. Questo, com’è normale che sia, non fa che distanziarlo dalla sua realtà, circoscrivendolo ad un mondo di rimandi (o ri-mondi) e rubandogli le energie che altrimenti impiegherebbe nella folle realizzazione dei suoi desideri.
Quando ho scelto che sarei stata danzatrice – o attrice, o danzattrice – non ci ho pensato troppo: sono bastate qualche parola d’incoraggiamento da parte di un’insegnante e la gioia irrazionale che provavo nel poggiare i piedi nudi sul pavimento con più o meno forza, nello spingere le braccia verso le nuvole, nello scuotere ritmicamente la testa per fare uscire un mondo più interiore e assordante. Tutto molto istintuale, comunque; talvolta anche romantico.
D’altronde, in vent’anni di vita non mi sono mai posta dei freni nel voler perseguire i miei sogni e concretizzare le mie fantasie; tutti i miei comportamenti hanno sempre lasciato intendere che avrei inseguito un percorso artistico (anche questa una condanna non indifferente, a pensarci bene). In ogni caso, restando fedele al fuoco che ho sempre alimentato con dedizione e amore, non ho mai nutrito dubbi tanto grandi da riuscire ad allontanarmi da questa strada.
Non penso che si tratti di talento (anche se a mio parere il talento non è altro che un’aderenza di una vocazione alla forza spirituale e alle energie che si impiegano nel realizzarla), quanto piuttosto di un’attenzione, un ascolto, a quella parte più oscura che tutti noi possediamo e che trova in un processo artistico la propria via di sfogo.
Nel trovarmi di fronte al Disagio proprio mentre compievo la mia prima scelta da adulta, mi sono accorta di come questo sia sempre stato in qualche modo un mio motore interiore che mi ha spinta a creare, a riflettere, a trasformare, riconvertendo il Male in Bello – o, perlomeno, in qualcosa capace di attirare uno sguardo e stimolare una riflessione.
Si dice che tutti i poeti si circondino di tristezza, e che le forme artistiche più autentiche nascano da uomini particolarmente tormentati o sofferenti. Non sono convinta che ciò sia del tutto vero: nutro dentro di me una visione ottimista (e forse un po’ idealista) che vede il prodotto artistico come il risultato di una qualsiasi manifestazione contemporaneamente intellettiva ed emotiva, includendo in queste anche gli slanci di gioia o la serenità di una routine che si trasforma lentamente in noia.
Se può essere che non tutta l’arte derivi da un malessere, è quasi altrettanto probabile che tutto il malessere possa riconvertirsi in arte, laddove trova un animo sensibile e propenso all’accogliere dentro di se’ un seme destinato a crescere, espandersi, e diventare talvolta mostruoso o ingestibile.
Come ho già testimoniato nei due precedenti articoli, non poche volte questo sentirmi inadeguata e in preda a sentimenti neri mi ha colta di sorpresa, soprattutto in situazioni nelle quali è socialmente richiesto di mostrarsi di buon umore. La strada più semplice è quella di rifugiarsi in un mondo interiore, dove ci è concesso di spostare gli elementi del paesaggio a nostro favore, trovando risposte, conforto o confortanti illusioni. Quello che ho sempre trovato nel mio è la voglia di danzare il mio male, di scrivere una poesia, di ammutolire il dolore con la bellezza di una canzone o di qualche colore ad olio steso su una tela. E ho scoperto che proprio nel ventre di Disagio nasceva un terreno fertile per andare in profondità, per riportare a galla un fantasma riconvertito in forza creatrice e distruttrice, dinamico e mutevole come lo sono i pensieri e i sentimenti che li accompagnano. Un po’ come i bambini che disegnano con i pastelli il mostro che hanno sognato durante la notte.
Così, nel corso degli anni, sono nate le mie danze della morte e le mie danze della vita, sono nate tutte le mie amatoriali poesie d’amore (un amore che ha trovato un foglio di carta ad accoglierlo, piuttosto che finire raggrumato su un cuscino dopo un pianto notturno), sono nate le mie “visioni” su tela, i miei spazi interiori che si sono espansi nel mondo e che hanno trovato sempre – e con grande stupore – un pubblico capace di accoglierli e amarli, rendendomi accolta e amata proprio per la forza che trovavo nel trasformare, attraverso i colori del mio corpo e della mia mente, questa piccolissima parte di mondo che mi è concesso di tangere.
Ora che mi accingo a compiere ulteriori scelte di vita che mi condurranno chi sa dove, e in un momento in cui tutto mi si prospetta come indecifrabile e complicato, riesco ancora e inesauribilmente ad accedere a questa fonte. Ho paura? Danzerò con la mia paura, danzerò la mia paura. Danzerò la stanchezza, la rabbia, l’insicurezza – che condivido con i miei coetanei – su un mondo che ci sfugge di mano, danzerò lo sconforto e la follia. E proverò a cantarlo, a dipingerlo se riesco, a immergermi totalmente e senza rimpianti nell’ignoto per sperimentare quante più forme espressive mi sarà possibile, per arrivare a quante più persone riuscirò a coinvolgere.
Perché non sono un’artista, non sono una danzatrice né una poetessa. Ma sono una a cui piace pestare i piedi a terra facendo rumore, in questo valzer indemoniato che è la vita.
Selene Tognoli