Amore e consolazione

Inizia oggi, con la rinnovata coppia AnnaAlice per le illustrazioni, “Vedute grandangolari”, nuova rubrica di Federico che proverà a tenere insieme filosofia e vita quotidiana.

Vivere con (e oltre) se stessi tra Boezio e Pascal

 

 

“Ora conosco […] la principale causa del tuo male; hai cessato di sapere quel che tu stesso sei” — Severino Boezio, De Consolatione Philosophiae

Quel giorno ero a Milano. Pioveva poco e stancamente. Appena toccavano terra, quelle gocce, sfiorando il suolo, sparivano. Chi non spariva, invece e purtroppo, erano gli esseri umani — sempre che così si possano chiamare — quella specie di cose misere che schizzano veloci di via in via, correndo e sbattendo a destra e a manca.
Quella mattina, però, era diverso. La loro velocità, la loro sciocca frenesia, non mi pesava come sempre accade.
Immerso nei miei pensieri frammisti alle quotidiane sonorità milanesi, non mi rendevo conto di quanto stridente fosse tutto ciò. Le persone e io. La pioggia (poca) e l’aria, sporca, simboli d’una natura stanca di essere servizievole con esseri meschini e vanitosi come gli umani. “La città più felice d’Italia” e i clochard stesi per terra, nella vana speranza di ricevere quei pochi centesimi da quelle due o tre persone che in tutto il giorno si accorgeranno della loro esistenza.
Me ne resi conto, di quanto tutto fosse stridente, in quel passato remoto che era quel giorno presente, quando dovetti scostarmi rapidamente dal bordo del marciapiede — risvegliato dal solito, spazientito, clacson milanese. E mi sono scostato, in quel passato prossimo che è quel giorno presente, per via di quel conatus sese conservandi (di quello sforzo per la conservazione di sé) che Spinoza definiva “primo e unico fondamento della virtù”, e non certo per amore di vita.
Salito sul mezzo, una visione (corsiva tanto nella forma quanto nel senso più profondo, etimologico, che fa del corsivo “qualcosa che corre”) si è messa in posizione, ha udito lo sparo, e, a grandi balzi, mi ha raggiunto. Mentre il mio corpo si spegneva, le palpebre progressivamente andavano chiudendosi, mentre le pupille — roteanti — provavano inutilmente a scalciare, protestare, contraddicendo quel movimento che, calato dall’alto, pareva essere ineludibile, come un ammonimento divino. Così, in un limbo tra irrealtà e materialità, mi rividi. 30/09/1999, 3 kg circa. Fuori, il temporale; dentro, un marmocchio  indiavolato, con pugni stretti e un volto già di protesta, di rivolta leopardiana contro una vita che non era ancora un male personale come quello cantato nell’A se stesso dal poeta recanatese.
Dalle cuffiette — con un suono lontano, distante — percepisco La stagione del tuo amore, canzone poco conosciuta del poeta a me più caro. Ridestandomi progressivamente, con opaca lentezza, pensai per un istante a quella figura per me quasi mitologica. A quello che (al di là delle banalizzazioni che se ne fanno al giorno d’oggi) era fondamentalmente un ultimo, un ubriacone, un folle, un uomo che aveva talmente difficoltà a vivere da dover scrivere di storie altrui, di storie di ultimi, ubriaconi, folli come lui. A quell’uomo che, se avesse vissuto nell’epoca di Sfera Ebbasta, avrebbe potuto essere uno di quei ubriaconi al bar che nessuno vuole mai avvicinare. A quel cantore senza tempo che ha sconvolto per sempre la mia vita senza che nemmeno i miei occhi incrociassero, anche da lontano, i suoi.  Subito dopo, come se non avessi scelta, vidi me. Due volte. La prima, a gambe intrecciate, intento a scrivere nevroticamente; la seconda, in piedi per grazia di “madre natura”, a immergere un bastone nell’acqua, proprio come quel Blaise Pascal che ho sempre amato. Ma, diversamente da Pascal, quel bastone non lo vidi spezzato, rendendomi conto di quanto fossero fallaci i sensi; vidi invece un me stesso strano, giovane e vecchio assieme, esposto all’agonizzante inquietudine di chi è prossimo a liberarsi del proprio corpo.
Di colpo, un altro clacson. Mi risveglio, questa volta brutalmente. Di lì a poco, scendo dall’autobus. Muovo qualche passo nella vera capitale d’Italia, scruto la realtà circostante, mi guardo attorno un po’ perduto. Vado in università, prendo appunti, mangio. Le stesse cose di sempre. O perlomeno mi sembra.

Poi sento la sveglia. Le 8:43. E solo ora capisco. Su quel pullman non ci sono mai stato, e in università ci devo ancora andare. Dopo quel risveglio, insolitamente, sorrido. Penso a come bizzarro sia vivere, e a come sia facile essere non essere contemporaneamente — ovunque e da nessuna parte, una cosa e il suo opposto. E ora capisco cosa voleva dire quella frase di quel libro che tanto mi affascinava. Perché il male dei mali, l’unica causa di tanti errori, di amorosi sensi iniziati e terminati, la radice dell’ignoranza e la matrice dell’indifferenza, sia una e una soltanto: l’aver “cessato di sapere quel che tu stesso sei”.

Federico

 

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