Quel che rimane
Sento il petto riempirsi di frutti caduti, terra umida e tronchi antichi, quando esco a respirare l’aria del mattino e mi volto verso la maloca, la nostra casa accogliente, per ringraziarla di averci protetto anche in questa notte di nubi grondanti. L’aria è pulita e silenziosa, non ancora infranta dal risveglio dei tucani e delle scimmie.
Il mio occhio coglie il movimento vibrante di un colibrì che si aggrappa allo stelo di un’eliconia e ne risucchia il nettare col suo becco infinito. Pochi secondi e si risolleva nel vuoto, il corpo immobile tranne le ali impazzite.
Settanta battiti al secondo, duecento se è nella fase dell’innamoramento.
Dio Sole si manifesta in molteplici forme: dona luce a se stesso mostrando riflessi d’argento sulle piume verdi e indaco.
Ora dalla maloca escono anche i miei figli, pronti a seguirmi al fiume per la pesca, un’arte che richiede la saggezza e perseveranza di cui sono fatte le nostre vite. Questo giorno è limpido come preannunciava l’alba; il pescato sarà abbondante grazie alla calma del fiume e sufficiente a sfamare tutti, fino a che domani non sarà finito e dovremo ricominciare.
Sulla superficie del fiume si muove un mezzo tipico degli umani; questi che vengono trasportati hanno la pelle chiara, il corpo coperto, e si avvicinano fino ad approdare alla riva. Chi sono, cosa vogliono?
Gli esseri umani dalla pelle più scura che vivono insieme a noi ne sono terrorizzati; dagli attrezzi inquietanti che mettono in mostra esce all’improvviso un rumore forte come un tuono, prima che qualcosa colpisca la zona di vegetazione dietro cui ci siamo nascosti per osservare la scena. Non riesco a controllare la paura: un grido profondo si muove dalle mie viscere e risuona in lontananza. La mia famiglia, che si trova nelle vicinanze, risponde allo stesso modo e anche le altre scimmie gridano sgomento, ciascuna nel proprio linguaggio.
I miei cuccioli ammutoliti tremano di paura. Poso una mano sui loro piccoli occhi lucidi, nella speranza di non farli morire di terrore. Un fuoco viene appiccato e in pochi istanti brucia la nostra foresta.
Mi poso su un ramo sottile, davanti al muso schiacciato di una creatura imponente che sembra attratta dal mio piumaggio scintillante. Anche se volesse provare a catturarmi non sarei in pericolo, lo so perché conosco l’estrema lentezza dei suoi simili.
C’è invece qualcos’altro che mi preoccupa: presagisco un cambiamento nell’aria, che si fa più secca e porta un’ondata di calore. Il cielo si oscura in lontananza.
Con un’agile spinta mi sollevo sopra la cima dell’albero e poi ancora più in alto, scorgendo un cerchio rovente che si allarga vorace.
Ritorniamo alla maloca per darle un ultimo saluto prima di abbandonarla e sfuggire all’incendio. Alberi antichi che hanno visto i nostri più lontani antenati saranno ridotti a scheletri da un momento all’altro.
Ci hanno costrette ad evacuare troppo in fretta il nostro riparo, con la scusa del fuoco che loro stessi hanno appiccato.
Un grido di ribellione proveniente dalla maloca raggiunge il mio udito, la voce di una donna che continua a ripetere “Io da qui non me ne vado”, insultando senza timore l’uomo bianco che approfitta di lei: sa bene che nessuna delle sue compagne riuscirà a difenderla — fucili sono già puntati sulle loro nuche.
L’aggressore esce dopo qualche momento, ritornando in mezzo ai suoi come se nulla fosse accaduto.
Il fuoco è sempre più vicino e noi, urlando, proviamo a convincere la nostra compagna umiliata a mettersi in salvo. Disperate e coraggiose, protestiamo perché gli uomini bianchi la trascinino via con la forza, ma ci obbligano a tacere spingendoci con forza verso la direzione di fuga.
Con le lacrime che mi offuscano la vista, osservo sconvolta una scimmia urlatrice che con lunghe braccia circonda e stringe il corpicino inerme del suo cucciolo, e dalla bocca emette un verso straziante che è quanto più di umano ci possa essere. Prego per la foresta e tutte le sue creature affinché il dolore universale possa un giorno estinguersi.
Apro gli occhi a fatica: qualcosa di nero e appiccicoso mi offusca la vista già molto debole; mi rendo conto di essere precipitato al suolo. Affondo gli artigli nella terra bruciata, per stabilire un equilibrio che mi permetta di risalire sul mio albero, da cui non mi ero mai sceso in tutta la vita.
Goffo, riesco finalmente a sollevare lo sguardo annebbiato verso l’alto, ma mi ritrovo senza più punti di riferimento: non distinguo più le foglie senza la loro brillantezza, e i tronchi sono tutti uguali, neri e bruciati. Comincio ad abbandonarmi, quando mi ricompare davanti agli occhi quella che è stata la mia ultima visione prima del disastro. Sembra volermi fare compagnia in questi ultimi attimi di vita, con la sua vispa presenza. Mi chiedo come hanno fatto quelli come me a sopravvivere, se ce ne sono ancora, mentre continuo a fissare il corpo vibrante e leggero dell’uccello sospeso per aria.
Infine, i miei occhi si richiudono, mentre cerco disperatamente di trattenere quel soffio di bellezza e libertà che piano piano si dissolve.
Valeria Delzotti