Sulle ceneri dell’essere umano

Viaggio oltre l’uomo: tra Sartre e Schopenhauer

“Non c’è ordine nel mondo salvo quello imposto dalla morte.” – Cormac McCarthy

Il crepitio assillante della pioggia mi annienta. Ogni goccia si infrange con violenza a terra. Il cuore saltabecca qua e là. I miei passi si susseguono, timorosi.
Davanti a me, cose indefinite, ridotte in brandelli — chiamarli umani sarebbe inappropriato. Alle mie spalle, un indistinto panorama — un pallone da basket, due martelli, un’infinità di siringhe, pezzi di carta straccia, penne e scalpelli — si sdraia su una tortuosa mulattiera tutta cemento e magma.
D’un tratto, qualcosa di vivo sembra manifestarsi ai miei occhi: è remoto, lontano, ma sì, sembra un essere umano proprio come me. Non ho le forze di mettere a fuoco l’immagine, che sembra dissolversi e ricrearsi a secondi alterni. Con la mano destra, cerco la bisaccia; con vigore inaspettato, stappo la borraccia. Mi ci vuole un’indescrivibile fatica, invece, per tenerla in aria in maniera corretta, affinché l’acqua impatti, poco a poco, con il mio corpo. Sì, non miro alla bocca. Lascio che la linfa vitale dell’acqua si disperda. Non mi importa dove, basta che mi tocchi. Lo scontro con la cute, già violentata da quell’inarrestabile pioggia, è potentissimo. Come schegge impazzite, quelle gocce paiono unirsi, assumere vita propria. Alcune di quelle esplodono sui capelli; altre sembrano posarsi — rapida e soffice eccezione in quello stridente scenario — dolcemente sulle dita delle mani; le migliori, però, sono quelle che inumidiscono lingua, labbra e denti. Come l’ambrosia per gli dei, quelle gocce sembrano riservate a me. A me, e alla mia immortalità. Melliflue, mi tentano; illusorie, mi allettano; vane, si disperdono. Precipitoso, ripongo la borraccia e alzo gli occhi. Quell’immagine sfuggente è ancora lì, e pare fissarmi. Mi muovo, nella luminosità fiamminga delle tenebre. Lo sforzo dato dal camminare è, in tutti i sensi, immane.
Passano secondi. Poi minuti. Infine ore.

Quell’immagine è lì, ora. Assolutamente straordinario, un volto angelico mi fissa. I capelli fluttuano, dorati come il crine del più mitologico Bucefalo. La fronte, bianco eschimese, si lega — descrivendo una sorta di arco — al naso appena in rilievo. Gli occhi, i girasoli di Van Gogh. Le guance, gli anelli di Saturno. Le labbra, tentatrici, ricordano Venere. Il resto del corpo è perfezione pitagorica e cosmologica: affonda le sue radici tra le stelle, si sviluppa secondo un’impeccabile proporzione geometrica, e si manifesta nell’impari incompletezza che eleva quel corpo a divinità, scagliandolo nell’Olimpo, territorio sconosciuto a me e a chiunque altro abbia conosciuto fino a quel momento. Terminato di scandagliare il corpo, ritorno sui suoi occhi. In quei riflessi d’immortalità che tanto sarebbe piaciuta a Kundera, rivedo la mia vita a velocissimo scorrimento. Nascita. Pianto. Ospedali. Ferite. Teatro. Amore. Morte. Provo a ritornare sullo sguardo, ma mi perdo gli occhi. Troppo potente, troppo pacificante, troppo etereo, quello sguardo. E lì, paradossalmente, mi rivedo. Ripenso a una frase di Sartre, la mia preferita — “Cogliere uno sguardo è accorgersi di essere guardati: lo sguardo che gli occhi rivelano, di qualunque natura essi siano, mi rimanda puramente a me stesso”, — e mi dico che sì, in quegli occhi si riflettevano i miei.
Guardo quell’immagine. Mi sorride piano, lentamente, e con quel volto, come l’aurora, mi porta al limite del crepuscolo. Mi attrae, terribilmente. Provo ad avvicinarmi. Lei si lascia sfiorare dalle mie, volgarmente umane, mani. Appoggio, col timore di chi ha di fronte a sé un dono immeritato, le mie labbra sulle sue. Quel contatto sembra protrarsi giorno e notte, senza sosta, senza pausa, senza pietà. Passano circa 8 lune, e quelle labbra si staccano. Retrocedo, scagliato all’indietro da un vento divino che mi allontana da quello che — mi ricorda, sussurrando — io stesso definivo “dono immeritato”.

Caduto all’indietro, sento la forza originaria chiamarmi a sé. Sprofondo nel nulla, transumano e antinaturale, dal quale mi sono sviluppato e al quale, circolarmente, ho fatto ritorno.
Quando riapro gli occhi, sono sotto l’Answhatta, l’Albero della Bodhi — quell’albero dove qualcuno, ben prima di me, aveva raggiunto l’illuminazione. Alla mia destra, uno smagrito Gautama, ormai Buddha, guarda con serenità nell’aere; alla mia sinistra, un senescente Arthur, per tutti Schopenhauer, scrive compulsivamente sull’importanza del soffrire.

Fu solo allora che capii.
Capii che il tempo non era uno scorrere, ma un ritornare. Capii che presente, passato e futuro sono come Dio, Bene e Male — nient’altro che invenzioni umane. Capii che Amore e Morte sono lembi della stessa, divina, tela. Capii che quel desiderio era solo da vincere, e quegli esseri in brandelli su cui prima camminavo, altro non erano che infinite sbiadite copie ripetute in serie e chiamate “umani” per eccesso di benevolenza. Capii che il senso della vita stava nel morire e che il senso del morire stava nel vivere.

Attonito per tutte quelle rivelazioni, mi voltai. I due, spariti. La Bodhi, dietro di me, scomparsa. Il nulla mi circondava, ma ora tutto era sereno. Finalmente imperturbabile, sentii un vecchio spirare e un neonato gemere. La vita e la morte s’erano fusi, e mentre con occhio puro studiavo il mondo, pensai a quello scrittore troppo poco conosciuto  che aveva (come sempre) scritto brevemente e saggiamente ciò che gli esseri umani, da sempre, si rifiutano e che, per sempre, si rifiuteranno di credere:

“Non c’è ordine nel mondo salvo quello imposto dalla morte.” 

Federico

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