Liberarsi della stereotipia di genere
Ore venti e quarantacinque, mi trovo per le strade di Milano sulla macchina troppo grande che mi ha prestato mio padre. Non mi piace guidare, ma che figura farei con una ragazza a cui ho chiesto di uscire se non la passassi a prendere? Spero solo che riuscirò a ripartire senza problemi una volta parcheggiato; mi immagino già la scena pietosa dei miei vani tentativi di riaccendere il motore più e più volte fino all’esasperazione.
È arrivato il momento: vorrei solo prolungare ancora un po’ l’attesa, ma ormai arrivato sotto casa sua la vedo venirmi incontro a passi sicuri e, senza troppi complimenti, infilarsi in macchina ancor prima che io faccia in tempo a correre dall’altra parte per aprirle la portiera.
Mentre turbato mi rimetto a sedere, lei mi fissa schietta, occhi magnetici amplificati dal trucco scuro, forse aspettandosi che io dica qualcosa per primo. Mi esce dalla bocca un “Ehi” flebile e patetico a cui lei risponde con un mezzo sorriso che non so interpretare. Cosa starà pensando di me? Forse che non devo avere avuto alcuna esperienza con le donne?
Inserisco la chiave concentratissimo perché il motore si accenda al primo colpo. Funziona. Lei mi indica la strada per il ristorante giapponese, quello che fa il ramen. Mi rilasso un po’, rimanendo comunque teso al volante mentre le chiedo, balbettante: “Perché ramen e non sushi?”. Lei mi guarda curiosa e forse un po’ divertita, facendomi sentire ulteriormente idiota; capisco poi che non è quella la sua intenzione, quando mi risponde con scioltezza e ironia: “Probabilmente perché fa più indie”.
Una volta arrivati, lei per prima scende dalla macchina, ancora una volta precedendo le mie intenzioni galanti. Si dirige convinta verso il ristorante, ma questa volta la raggiungo in fretta per riuscire almeno ad aprirle la porta. Lei esclama “Che gentiluomo!”, con aria stupita. Non capisco se è seria o mi sta prendendo in giro.
Ci sediamo a uno dei tre tavoli in fila nell’angusto locale e io mi assumo volontariamente l’onere della posizione più scomoda: fra lo spigolo e il muro con le giacche appese che mi cadono sulla testa. Questa volta lei scoppia a ridere genuinamente e la tensione finalmente cala. Mi chiede se è la prima volta che esco con una ragazza e io rispondo, sforzandomi: “In un certo senso sì, ho avuto altri tipi di appuntamenti”.
“Intendi dire che hai provato a stare con soli ragazzi? Pensa, io stessa ho avuto un’avventura con una mia amica, l’anno scorso” dice lei.
Sconvolto, rispondo “Che cosa vuoi dire? Io sono uscito sempre e soltanto con ragazze, figurati, solo che non si trattava dei classici appuntamenti. Diciamo che erano più momenti di svago, senza troppo impegno”. Mi rendo conto parlando che il suo viso aperto e fiero si trasforma completamente, rendendosi conto della propria eccessiva sfrontatezza. Arrossisce violentemente mentre cerca di spiegare la sua “battuta” con una risata forzata.
“Ma certo! Ovviamente stavo scherzando, volevo vedere la tua reazione. E poi, non sarei uscita con te se fossi lesbica”.
“E di certo nemmeno io con te”, rispondo io.
Ora non mi sento per niente all’altezza della situazione; se è arrivata a dedurre che potessi essere omosessuale significa che non mi sta neanche prendendo un considerazione.
Per scacciare via questo sentimento di inferiorità cerco di comportarmi da uomo: a questo punto, dovrei parlare di ciò che dovrebbe interessare a un ragazzo, come il calcio, storie di sesso con ragazze di tutte le età, risse con gli amici… E così mi comporto, arrivando persino a inventarmi di essere stato con una di nove anni più grande, che a un certo punto si è innamorata di me, obbligandomi ad allontanarla per non farla soffrire.
Ogni cosa che dico è ridicola nella sua finzione, non solo per la mia ascoltatrice, che si fa sempre più incredula, ma per me stesso che non sono mai stato il tipo di ragazzo che sto descrivendo.
“È molto strano ciò che mi dici: apparentemente sei una persona sensibile e dall’animo romantico, infatti fin da subito ho pensato che ti piacesse l’arte. Erano solo mie supposizioni?”.
“Direi proprio di sì… insomma, tu staresti mai con uno così?”.
“Beh, perlomeno riuscirei a parlarci. Non che io sia romantica, anzi, ma ho sempre avuto una passione per il cinema e la letteratura. Trovare un ragazzo che si mostra apertamente per quello che è, senza pensare a far colpo su qualcuno, sembra un’impresa”.
Quindi ho rovinato tutto. Forse è meglio chiuderla qui.
“Che ne diresti di farci portare il conto?”.
Lei annuisce poco convinta mentre mi alzo meccanicamente alla ricerca disperata del portafoglio nella mia giacca; poi mi guarda e dice “Non devi mica offrirmi, lo sai vero?”.
“Ma per chi mi hai preso? Roba di altri tempi”, dico io, ricacciando goffamente il portafoglio in tasca.
Finalmente usciamo da quel luogo claustrofobico. Lei mi propone di fare una camminata lungo la darsena per motivi a me ignoti, dato il totale fallimento della serata. Accetto per inerzia; mi sento sollevato, comunque, perché non c’è più motivo di essere tesi.
Ho sprecato la mia occasione, proprio con una persona che ha dimostrato di avere certe affinità con me… che però le ho nascosto.
Mi giro improvvisamente verso di lei, che mi fissa da dietro quasi studiandomi. “Se ti dicessi che una volta ho baciato un ragazzo, che adoro girare per musei da solo, danzare e scrivere poesie cosa penseresti di me?”. Le parole mi escono dalla bocca nonostante la mia stessa incredulità.
Mi risponde, dopo qualche secondo di sconcerto: “Ti troverei molto più interessante di come mi sei sembrato a cena. Perché non ricominciamo?”
Valeria Delzotti