Dialoghi cinematografici – Alessandro Comandatore

Giovedì 7 novembre 2019, al Cinema Excelsior di Sondrio, veniva proiettato Giulia ascoltando, il film di Alessandro Comandatore — un giovane regista amatoriale che avevamo già intervistato all’inizio del progetto. Oggi approfittiamo di quest’occasione per inaugurare una nuova rubrica, Dialoghi cinematografici, che si avvia proprio con la conversazione a cui vi lasciamo.

 

Questo percorso nasce tre anni fa. Giulia ascoltando è stato, al di là del gradimento personale, un lavoro che ti ha molto occupato — l’hai scritto, diretto, prodotto e montato; e ti ha assorbito per parecchio tempo. Come sintetizzeresti, ora che è tutto finalmente finito, questo percorso?
È stato un lavoro totalizzante e ho cercato di curarlo in ogni dettaglio. Gran parte della realizzazione pratica, come hai detto, è stata portata avanti da me soltanto, anche se non smetterò mai di ringraziare persone come il compositore Ugo Altamore (che ho fatto veramente dannare) per la sua incredibile colonna sonora. Spesso però mi accorgo di come questo portare avanti tutto quasi da solo, per quanto possa essere faticoso, renda l’esperienza finale unica. Ci tengo a precisare che questo film amatoriale è stato realizzato a fondo zero e sono rimasto molto contento nel notare che molte persone abbiano visto anche un prodotto artistico e di valore, oltreché un film fatto da ragazzi. Ho ricevuto molti complimenti e feedback argomentati e questo mi dimostra che il messaggio è arrivato. Insomma, non potrei essere più felice di com’è andata.

Al netto dell’imprevedibilità del futuro, se dovessi immaginarti fra una ventina d’anni, e dovessi pensare al ruolo che questo film ha avuto per te, cosa diresti?
Di certo il film non ha attivato nulla dal punto di vista della passione. La passione per il cinema è fissazione innata, congenita, che ho sempre avuto e che non è certo conseguenza (quanto piuttosto causa) di Giulia ascoltando. Il ruolo del film, se mai, è fondamentale da un punto di vista tecnico: sono molto più consapevole di molte cose e soprattutto ho acquisito una certa sicurezza nell’esecuzione tecnica del lavoro. Avendo avuto una realizzazione di così ampia durata, è stata un’esperienza che mi ha coinvolto e mi ha costretto a rimettermi in gioco moltissime volte, sia umanamente sia tecnicamente. Ci sono stati momenti di abbandono in cui pensavo che avrei dovuto interrompere tutto e invece alla fine sono riuscito in qualche modo a raccogliere le risorse rimanenti e darmi da fare.

I due protagonisti del film, Giulia e Tommaso, differiscono molto dalle due persone che lo interpretano (Carola Maxenti e Gian Piero De Filippi): cosa diresti su questo scarto fra la persona e il personaggio?
Tommaso è un inetto che cerca in tutti i modi di darsi delle arie, che prova ad atteggiarsi da intellettuale pur rimanendo un inetto; Gian Piero è una persona che disprezza l’intellettualismo e non riconosce validità alla parola “intellettuale”. Differentemente dal suo personaggio, Gian Piero sa essere molto pragmatico in ogni cosa che fa; questo si nota del resto anche nel film, con uno studio molto approfondito della corporeità e della vocalità.
Per quanto riguarda Carola Maxenti, la ragazza che interpretava Giulia, lei è sostanzialmente l’opposto del suo personaggio.

Inevitabilmente, quando si confezionano prodotti artistici e si è giovani, si parte — anche solo inconsciamente — da modelli e punti di riferimento, per poi provare ad andare oltre. Quali sono stati i tuoi?
Anche se in Giulia ascoltando si respira molto poco la sua aria, il modello principale, per me molto forte, è Federico Fellini. Ciononostante, in questo film ho cercato di essere il più personale possibile, e di non cadere nell’emulazione. Del resto, se non ci fosse stata un’idea forte (e mia), dubito che il lavoro si sarebbe protratto per tre anni come poi è effettivamente successo. Anche se i miei punti di partenza sono Fellini e Nanni Moretti, e se il mio collaboratore creativo (Gian Piero De Filippi, N.d.R.) ritrova qualche atmosfera di Paolo Virzì, direi che l’influenza è minima.

Come sai, su Bottega di idee c’è una rubrica che tengo io in cui connetto episodi di vita quotidiana a singoli elementi di film. I primi due che ho trattato sono stati Joker Martin Eden. Hai voglia di spendere qualche parola su questo?
Personalmente trovo che, a livello narrativo, alcune cose di Joker non reggano: non capisco questa semplificazione riguardo alla società né trovo molto logico il suo rapporto con il mondo. Ciò detto, e specificato quindi che non lo trovo certo un capolavoro, non credo nemmeno sia un film da buttare, anche per il solo fatto che porta molta gente nelle sale. Di Martin Eden ho apprezzato la grande interpretazione di Marinelli, come ho molto apprezzato di ambientare la storia nella realtà di Napoli, così ben conosciuta dal suo autore. Nel finale, personalmente, ho visto molto Carmelo Bene, e l’ho trovato, complessivamente, un bellissimo film. Per quanto riguarda la rubrica e il tuo articolo che ho letto con molto interesse, ho apprezzato sia il fatto che non ti sia posto come critico sia che tu riesca a parlare di determinati film mescolandoli con la tua esperienza, che peraltro porta molto al di là del significato dei singoli film.

Muoviamo ora verso la conclusione di questo dialogo, prendendo il cinema da un’angolatura diversa, molto più economica. Poco fa, è uscito nelle sale The Irishman, nuovo film di Scorsese che sarà poi disponibile su Netflix. Questa possibilità ha generato grande dibattito relativamente alla fruizione dei film. Cosa vuoi dire su questo?
Sono molto contrario alla sua manovra. Scorsese è considerato un grande regista di cinema e non aveva certo alcun bisogno di Netflix per diffondere il proprio film. Al di là di tutta la retorica sul cinema, questa politica osteggia le sale cinematografiche e tutte le specificità — tecniche oltreché “romantiche” — che su uno smartphone non possono aversi. Non ho niente contro Netflix di per sé, ma mi stupisce che Scorsese abbia preso una decisione del genere, limitando le sale di proiezione in cui si potrebbe vedere il film.

“Gli amanti del cinema sono persone malate”. Come rispondi a questa frase di François Truffaut?
La frase fa sorridere ma anche difficile da commentare. Penso la si possa inserire in un discorso relativo alla dinamica dello sguardo: il un narcisismo dello spettatore che si autoriflette nell’opera e quello dell’autore nello specchiarsi in se stesso. In Giulia ascoltando, per esempio, con dei continui stacchi ho cercato di esacerbare la distanza fra il film e lo spettatore, proprio per evitare questo rischio.

Chiudiamo il primo dei Dialoghi cinematografici con una risposta che possa essere ripreso nel dialogo con la prossima persona. La domanda è forse la più difficile si possa fare: cos’è, per te, il cinema?
Uso un’espressione utilizzata una volta da Gian Piero, che calza bene: “il cinema è una reliquia in movimento”. Si riferiva, credo, al fatto che le scene di un film rimangono per sempre cristallizzate nel tempo, ma al tempo stesso con il dinamismo, tipico di un film. Personalmente io tendo a definire il cinema da una prospettiva troppo privilegiata essendo dalla parte di chi cerca di farlo. Insomma, vorrei non essere melenso, ma è difficile non esserlo… direi che il cinema è il motore della mia vita.

Federico

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