Alberica Archinto, ex Responsabile Organizzativo della Paolo Grassi di Milano, collabora attualmente con l’Accademia dei Filodrammatici e al Teatro Gerolamo, in qualità di consulente artistico. Ideatrice del progetto Stanze, ha anche lavorato in RAI per una decina d’anni. Ha fatto parte della Commissione Teatri Convenzionati del Comune di Milano per due mandati. La sua intervista apre un percorso che avvicinerà il nostro redattore, di mese in mese, a varie figure di spicco della realtà teatrale milanese e non solo.
Di chi tu sia e cosa tu faccia abbiamo appena detto nell’introduzione. Ci racconteresti, ora, qual è stato il percorso che ti ha condotto a questi risultati?
Ho avuto la fortuna di appassionarmi al teatro già durante il Liceo, decidendo che avrei voluto occuparmi di teatro. Laureata al DAMS, ho poi proseguito con la Scuola d’Arte drammatica della Paolo Grassi. Di fatto ho sempre lavorato da operatore teatrale, con una lunga e significativa parentesi in RAI. Negli anni in cui RAI3 era un centro culturale interessante ho avuto la fortuna di lavorare alla redazione di Milano. In seguito, ho lavorato alla Paolo Grassi altri 10 anni come Responsabile Organizzativo; sono stata aiuto regista e operatore in tante compagnie in giro per l’Italia. Negli ultimi anni ho lasciato la Paolo Grassi e sono andato a lavorare all’Accademia dei Filodrammatici e dall’anno scorso ho accettato l’incarico di consulente artistico del Teatro Gerolamo, teatro molto antico che è stato prima teatro delle marionette, in seguito centro di drammaturgia e poi è stato chiuso per trent’anni per inadeguatezza di norme sulla sicurezza. La programmazione varia dalla musica classica alla contemporanea, passando per le marionette e per la prosa, di cui mi occupo particolarmente. La mia vera passione, oltre a quelle che ho detto, è una rassegna di teatro che porta spettacoli (in anteprima o inediti, a Milano) fuori dai teatri. Questo progetto, che ho ideato insieme a Rossella Tansini, vuole essere un luogo — la stanza, appunto — dove l’arte arriva prima del palcoscenico, dove compagnie realizzano spettacoli che auspicabilmente vengono trasposti nei teatri. Ogni volta, dunque, scegliamo il luogo più adatto per lo spettacolo: dagli uffici ai musei, fino agli appartamenti, seguendo quella che noi abbiamo definito “la drammaturgia dello spazio”. Ogni spettacolo diventa così site-specific, dando alla rappresentazione il riferimento alla specificità del luogo scelto, che non di rado viene usato attivamente ai fini dello spettacolo. Questa rassegna, Stanze, è luogo dove molti artisti vengono volentieri perché fornisce l’occasione di misurarsi tra l’intimità della prova e l’emozione data dal loro debutto. Oltre a questo, è anche occasione sempre più rara per mostrare a chi fa le programmazioni dei teatri a voler portare queste rappresentazioni sul palcoscenico.
Personalmente credo sia difficile definire qualunque cosa, figuriamoci il teatro. Ciononostante, vista la tua esperienza e la tua visione, come lo definiresti?
Anzitutto, la parola “teatro” contiene un po’ tutto. Per quanto ce ne siano diverse forme, negli anni ho capito anzitutto che la distinzione da fare è quella tra il buon teatro e il cattivo teatro. Non ho, insomma, alcuna preclusione per qualunque genere; mi interessa il buon teatro. Ciò detto, non mi sottraggo: il teatro, per quanto mi riguarda, è un luogo dove devono intercorrere delle domande e delle risposte, tra la platea e il palcoscenico, dove esiste dimensione di verità e dubbio; il palcoscenico si configura come luogo dove mettere domande, al di là delle risposte.
Nei percorsi teatrali che seguo, mi sono in più casi espresso come segue: “teatro e vita si coimplicano, sono due essenze della stessa natura: a teatro si vive, nella vita si recita“. Come commenti queste parole?
Indubbiamente la trovo molto giusta come frase. Shakespeare diceva che “tutto il mondo è palcoscenico”, e del resto ci accorgiamo tutti di come ciascuno di noi, nel quotidiano, vesta una o più maschere. Piuttosto, potrei usare la tua frase come criterio di giudizio: se non vedo vita nell’azione teatrale, allora è segno che quello che sto vedendo è cattivo teatro.
Ad agosto, Bottega di idee ha portato un mese integralmente dedicato al disagio. Nelle tre interviste fatte a tre psicoanalisti (Pamela Pace, Domenico Letterio e Fabio Galimberti) ho sempre chiesto la ricaduta terapeutica della scrittura. A te, invece, vorrei chiederlo da un punto di vista teatrale: fino a che punto il teatro può lenire il dolore della vita quotidiana?
Fino a che punto è forse indefinibile. Di mio, le esperienze forse più arricchenti sono state quelle fatte a Bollate e San Vittore; citando lavori altrui, invece, vorrei parlare di Teatro Utile, attività condotta dalla mia amica e collega Tiziana Bergamaschi, che unisce rifugiati e ragazzi con gravissime difficoltà di salute e dall’esperienza biografica terribile, come l’abbandono della propria terra, i viaggi sui barconi, la fuga dalle guerre.
Abbiamo tanto parlato del bene che fa il teatro. Dovessi, invece, isolare, una criticità legata al mondo teatrale, cosa diresti?
Io vedo platee formate da donne più che uomini e più da adulti che da giovani. Il teatro, e non solo quello goldoniano o comunque “lontano” dai giorni d’oggi, ma anche quello contemporaneo, non fanno presa sui giovani. Non riesco a comprendere il perché di questo fenomeno: posso solo provare a supporre che sia un discorso di tendenza, di pigrizia generazionale, di eccessivo ingresso della tecnologia all’interno della psiche giovanile, anche se ci tengo a dire che non ho alcuna risposta definitiva e che, anzi, ogni caso è a sé, e dunque generalizzare, come sto facendo per darti una risposta, è abbastanza pericoloso.
Spostiamoci per un istante su una questione più di sfondo a questi discorsi specifici. Personalmente, ogni giorno che passa sono sempre più risentito dalla scarsissima attenzione che lo Stato dedica non solo e non tanto alla realtà teatrale, quanto piuttosto a qualsiasi attività culturale. Come si può, a tuo avviso, invertire la tendenza?
Il succedersi di ogni governo in Italia non riesce a capire di quanto il nostro Stato, grazie alla cultura, potrebbe avere dei grandi risultati. Faccio davvero molta fatica a capire perché sia così e non accetto il discorso “più asili, meno teatri” o al gioco “chiudiamo musei per aprire ospedali”: in uno stato serve tanto la cura del corpo quanto quella dell’anima, e credo che il teatro sia un’esperienza del vivere, anzitutto relazionale, comunitaria e individuale. Fare e diffondere cultura serve sempre, e questo i nostri potenti pare che non l’abbiano ancora capito.
Riprendendo le tue ultime due risposte, sulla necessità di giovani attivi e di diffusione culturale, non temo opinioni contrarie. Come sai, ormai da tre anni, Bottega di idee prova a riavvicinare i giovani alla cultura e la cultura ai giovani. Quali parole vuoi spendere su tentativi come il nostro e quali opinioni vuoi fornire, più specificamente, sul nostro sito?
Ogni tentativo in questa direzione è prezioso. Vedo con grande interesse e provo molta stima di chi si spende per queste iniziative di diffusione. Per quanta riguarda voi, e in particolare la vostra rubrica di critica teatrale, non posso che confermarvi la mia totale attenzione e disponibilità e augurarvi buon lavoro.
Federico