Dopo Alberica Archinto e prima di Antonia Chiodi, Federico oggi parla di teatro con Tiziana Bergamaschi. Attrice e docente all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” in passato, oggi regista e conduttrice di Teatro Utile, un progetto dell’Accademia dei Filodrammatici,da lei stessa ideato, che da otto anni intreccia migranti, teatro e vita, plurilinguismo e inclusione. Grazie e buona lettura.
Il percorso che da me porta a te è segnato dalla tappa dell’intervista — pubblicata qualche settimana fa — ad Alberica Archinto. Quali tappe, invece, ti hanno portata al punto in cui ti trovi oggi?
Come l’Albatros di Baudelaire, stavo scomoda nella vita e così ho capito che il teatro era la mia strada, solo lì mi sentivo a casa. Sono partita dall’Accademia Nazionale Silvio d’Amico nella quale mi sono laureata in recitazione nel ’78. Ho vissuto a Roma 35 anni, lavorando a lungo come attrice con diverse compagnie di giro. Verso i 38-39 anni mi sono stancata di fare la trottola e ho voluto cercare la mia voce, che esulasse dalla sola dimensione d’interprete. Hanno cominciato ad interessarmi la regia e la drammaturgia; ho anche lavorato per 6 anni come Docente di Storia del Teatro alla Silvio D’Amico, mentre, sempre lì, per 4 anni ho condotto un progetto sulla drammaturgia contemporanea. Per motivi personali, ho dovuto trasferirmi a Milano e senza soluzione di continuità sono passata all’Accademia dei Filodrammatici — qui ho continuato il percorso sulla drammaturgia contemporanea, e da questo lavoro è nato il Progetto Teatro Utile.
…E proprio qui ti interrompo. Teatro Utile non è solo una compagnia fra le altre, ma una vera e propria chicca che merita un approfondimento particolare. Ci racconti storia e intento di questa creatura?
Teatro Utile è un progetto nato 7 anni fa, frutto di un pensiero sulle drammaturgie africane. Da qui è nata l’idea di entrare più nello specifico, e di conseguenza con Antonia Chiodi, direttrice dell’Accademia dei Filodrammatici, abbiamo pensato il Progetto Teatro Utile, che non vuole ritenersi più “utile” rispetto al teatro in genere, ma vuole immergersi nella società e segnalare che il mezzo teatrale può essere socialmente utile anche, ad esempio, in relazione al fenomeno migratorio. Il primo anno siamo partiti con un laboratorio frequentato da 20 attori, 10 italiani e 10 provenienti da diverse parti del mondo i quali avevano avuto esperienze più o meno importanti nei loro Paesi, ma che qui non trovavano spazi per la loro espressione. In questo laboratorio abbiamo indagato sull’importanza del conoscere l’altro da sé. Dal secondo anno, abbiamo deciso di focalizzarci sulla drammaturgia, e capito che per trovare una nuova voce era necessario ampliare sempre più le nostre visioni: undici drammaturghi di sette nazionalità diverse, guidati da Renato Gabrielli, si sono uniti in un laboratorio sugli spazi urbani, e sulle diverse funzioni che questi luoghi possono acquistare grazie al diverso uso che i migranti ne fanno.

Così, è nato Sotto un cielo straniero, un testo recitato da 20 attori di diverse nazionalità e andato in scena a Macchinazioni Teatrali. Dopo un anno lo abbiamo ripreso al teatro Zona K, questa volta con solo 7 attori e con la drammaturgia scenica curata da me. Lo scopo del Progetto Teatro Utile è sensibilizzare gli artisti ad affrontare temi attinenti ai cambiamenti sociali che stiamo vivendo e a collaborare con figure altre come: operatori sociali, drammaturghi, giornalisti, registi, attori, psicologi, psichiatri. Cerchiamo di stimolare nei giovani— e in questa la tua intervista e il tuo blog calzano a pennello — una sana curiosità intellettuale. Nel 2019 tra l’altro abbiamo collaborato anche con il servizio di etnopsichiatria (dove si accolgono migranti che hanno subito tortura o traumi estremi) dell’Ospedale Niguarda per affiancare il teatro, che in questo caso diventa una “cura dell’anima”, alle cure psichiatriche. Gli effetti di quest’ultima collaborazione sono stati straordinari e non solo in ambito teatrale, ad esempio i partecipanti hanno diminuito, grazie a questa esperienza, gli psicofarmaci. Stiamo lavorando a che da gennaio parta un laboratorio permanente da affiancare alla cura, della durata di un anno solare, per un collettivo che non lavori su una fedele riproposizione scenica della realtà vissuta, ma che conduca i partecipanti, attraverso le metodiche del teatro, a una presa di coscienza della propria unicità come essere umani e del diritto ad una vita degna. Contemporaneamente quest’anno in Accademia affronteremo il tema della seconda generazione con un laboratorio di drammaturgia nel corso del quale otto drammaturghi scriveranno dei brevi testi intorno a questo tema complesso.
Come — o forse di più — tante altre parole, “teatro” è termine molto difficile da definire. Dopo un’esperienza così lunga e peculiare come la tua, quali parole useresti per descriverlo?
La definizione non è mia ma la accolgo totalmente: il teatro è l’incontro tra due persone con ruoli diversi ma ugualmente importanti, che sono lo spettatore (che si presume, e che io credo essere, intelligente e attivo) e l’attore. “Teatro è ovunque ci sia una persona che ascolta e l’altra che narra”, per dirla con Peter Brook.
Più si va avanti nella teatralità, più si va creando una propria poetica. Per quanto possa essere personale la poetica che si propone, si parte sempre da qualcosa, avendo sempre in mente dei modelli. Quali sono i tuoi?
Sicuramente Peter Brook. Io l’ho avuto come riferimento alto da sempre, da quando era piccola. Ho avuto la fortuna di avere da due maestri: Orazio Costa Giovanni Gigli come maestro di recitazione e di regia — e che, oltre a questo, mi ha insegnato un’etica del teatro vicina a un senso religioso, che nessun altro avrebbe potuto insegnarmi — da una parte e José Sanchis Sinisterra che mi ha insegnato cosa fosse la drammaturgia e che per me è davvero un grande maestro.

La teatralità, impossibile negarlo, attiene a sé una grande varietà di arti: quali ti affascinano maggiormente e come dev’essere concepito il loro rapporto?
Sono due le arti che mi affascinano di più: l’arte figurativa nel suo lato compositivo da un lato e la musica dall’altro. Teatralmente parlando, io lavoro sulla coralità, sulla musicalità della parola, e la musica non deve accompagnare ma essere — uguale alla parola, uguale all’immagine — per diventare lingua, per farsi mezzo di comunicazione.
Altro argomento, su altro versante, a cui tengo molto vista la facilità con la quale ci si specula orribilmente, è la conoscenza empirica, reale, fattuale, del migrante e delle sue difficoltà. Tu che hai avuto (e hai) la possibilità di conoscere molti di loro, cosa vuoi dirci su questo?
Siamo uguali, disperatamente uguali, al di là delle differenze culturali — che sono irrilevanti, tutto sommato. In un progetto sugli oggetti rinvenuti nel mare di Lampedusa, abbiamo scoperto che usavano lo stesso latte, gli stessi telefonini, le stesse scarpe, gli stessi giochi per i bambini. Ciò che ci ha scioccato è che erano gli stessi oggetti, e anche l’oggetto ha una sua valenza, enorme: qual era la differenza? Che noi eravamo più fortunati a essere sulla terraferma. Sostanzialmente parlando, la differenza fra io e loro era nessuna: per questo, a teatro, siamo solo un noi — un “noi” non certo mosso da pietà ma da un lavoro serio e approfondito, uguale per tutti, fortunati e sfortunati. C’è una battuta nel testo su cui stiamo lavorando ora — te la riassumo, non la so a memoria — che credo la dica lunga sul tema: “Questo paese era l’Eden ma noi non abbiamo saputo cogliere i frutti, abbiamo preferito uccidere il fratello perché non ci sentivamo amati; è la mancanza d’amore che ci ha portato a questo. Per paura di essere amati siamo arrivati a essere amati per pietà”.
Come ti ho detto privatamente, sono studente di Filosofia. Studiando L’essere e il nulla di Sartre, all’interno di un discorso incentrato sulla dinamica dello sguardo, l’autore scrive questa frase che ho trovato quasi inequivocabilmente teatrale — oltreché, a mio gusto, meravigliosa — e che per questo ti chiederei di commentare: “Cogliere uno sguardo è accorgersi di essere guardati: lo sguardo che gli occhi, di qualunque natura essi siano, rivelano, mi rimanda puramente a me stesso”.

Cosa si può aggiungere a tanta bellezza? Se posso dire, è la bellezza dell’essere umano per me. Il teatro non è che il luogo dell’incontro. Lo sguardo dello spettatore è uno sguardo che mi fa consistere, che mi fa essere gruppo, famiglia. Il teatro è lo sguardo di chi va in profondità, di chi attua la condivisione di un’eccezionalità, talmente forte che supera il contigente, e diventa qualcosa di nascosto che abbiamo condiviso, una cosa che sappiamo solo noi, che è solo nei nostri sguardi. E l’ho provato quest’anno con lo sguardo del pubblico — pubblico che era con noi e ha condiviso con noi ogni emozione. Lo sguardo è un modo di guardarsi diverso, che ti fa consistere, che ti dice che sei tu.
Come sempre e per tutti accade, l’ultima domanda tange la nostra realtà: è tre anni che Bottega di idee prova ad avvicinare la cultura, che a tratti mi pare voler rifiutare prodotti di stampo moderno, ai giovani; e i giovani — che mi paiono sempre più chiaramente disinteressati da questo — alla cultura. Cosa dici di questo fenomeno e come ti esprimi sul nostro tentativo?
Bisogna portare le persone a conoscere la cultura. Il teatro, che è l’ambito in cui agisco, sta cercando (da anni, ormai) di formare un pubblico. Non penso che i giovani si tengano a distanza, solo penso che si debbano aiutarli a conoscere e apprezzare le arti. Naturalmente per fare questo è soprattutto necessario comunicare il tuo amore per, nel mio caso, il teatro . Se le cose non le ami, è meglio che tu non le condivida. E in questo credo che il tuo blog e l’impegno profuso nel creare un spazio che non solo aiuti conoscere diverse realtà ma che permetta una discussione intorno ai temi trattati sia prezioso non solo per i giovani. La ricchezza dei temi che prendete in esame, la competenza dei collaboratori e la curiosità che vi spinge a scoprire e conoscere diverse figure che s’impegnano in ambito culturale, sono una speranza per il futuro.
Federico
Da Aristotele passando per il grande Menandro fino a oggi ci si chiede se, tra vita e teatro, ‘chi imiti chi’.
Insistere sul valore educativo -ex-ducativo- del teatro non è solo utile: è forse una delle più fruibili opzioni terapeutiche dell’uomo d’oggi.
Grazie ad entrambi del vostro impegno!
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