Il passo del vento

Lo straordinario nell’ordinario 

“Parlare di montagna equivale a parlare dell’intera esistenza, e di come in essa si intende prendere posto. E amare la montagna significa stare al mondo con franchezza, desiderio di avventura, accortezza e spirito di solidarietà, rispetto per la vita in tutte le sue manifestazioni.”

Penso che Mondadori ci abbia preso in pieno quando ha scelto queste parole per definire la trama del nuovo romanzo di Mauro Corona e Matteo Righetto. Il passo del vento è, infatti, un compendio di emozioni, ricordi, esperienze e racconti che arrivano al cuore del lettore attraverso la forma di un dizionario, o, meglio, di un’autentica enciclopedia di vita. Ed è proprio di vita che si è parlato a Milano Bookcity lo scorso 16 novembre. 

“Chiacchiere”, le ha definite Mauro Corona; “insegnamenti”, li definirei io. Ma dopotutto chi lo conosce lo sa, Mauro è un uomo modesto, semplice, con i piedi ben piantati per terra, e i termini ufficiali non gli si addicono. Forse gli danno persino fastidio. “Togliere” è il suo motto, togliere il superfluo per restare con l’essenziale

Lasciate però che vi spieghi cosa si intende, qui, per essenziale. 

Ho partecipato a vari convegni, quel sabato. Ho sentito parlare di razze, di linguistica, di femminismo e di viaggi al di là dell’oceano, ho incontrato filosofi, autori, editori e redattori, ma nessuno ha avuto il coraggio di sedersi davanti a me con una birra in mano e parlarmi di sgorbie o di tornitura del legno. Nessuno mi ha raccontato la propria esperienza di vita o la propria storia di famiglia – non quella vera, almeno; ad abbellire siamo bravi tutti. 

Mauro, invece, non abbellisce proprio nulla, e di certo non risparmia niente e nessuno: si mette totalmente a nudo e ti racconta di quando, a 11 anni, lui e sua nonna erano costretti a camminare per 34 chilometri al giorno solo per andare a fare l’elemosina a Cellino, l’unico paese un po’ più grande che si trovasse nel circondario di Erto; ti racconta della sua insofferenza verso un mondo nel quale non è più in grado di rispecchiarsi, un mondo in cui “il meccanismo dell’inutile, della superficialità, delle cose banali è dannatamente contagioso”; ti racconta di suo nonno e dei suoi amici, Celio in particolare, ma anche Silvio, o Mano del Conte, che con le loro piccole perle di saggezza dettate da menti poco più che analfabete sono riusciti a temprare un fragile bimbo che ora si è fatto uomo, arrampicatore, alpinista, scultore e, naturalmente, scrittore. Nei libri di Mauro ogni pagina è una sorpresa, e, a volte, uno schiaffo in pieno viso. Penso che sia proprio in questo che si nascondono la sua forza e il nostro essenziale: non occorrono mondi e personaggi inventati per rapire la mente e il cuore del lettore – alle volte bastano una baita, un bicchiere di vino e un falò a margine del bosco per festeggiare, finalmente, l’arrivo del disgelo.

Affiancare un personaggio del genere non è facile; “c’è bisogno di qualcuno che sia fatto della stessa pasta”, direte voi, ma io non sono d’accordo. Non del tutto, almeno: ci vuole qualcuno come Matteo Righetto, un autore che con Mauro ha tante affinità ma anche tante differenze. È stato lui stesso ad ammetterlo: “[…] abbiamo due estrazioni diverse: lui è un nativo montanaro, io no, quindi è chiaro che fin dall’infanzia abbiamo visto le cose in maniera diversa. Il bello della montagna è questo: può esprimersi e può offrirsi a ciascuno di noi in maniera differente, se solo abbiamo gli occhi per vederlo e il cuore per sentirlo”.

Si bilanciano bene, questi due. È difficile spiegare perché: è così e basta. Lo si percepisce leggendo. Mauro ti sferra un cazzotto sul muso e Matteo te lo lenisce con un panno imbevuto di acqua e sale. Dopotutto ce lo si può aspettare, non siete d’accordo? Mauro ha vissuto sulla propria pelle la povertà, la miseria, la fame, e, soprattutto, il disastro del Vajont, mentre Matteo ha avuto la fortuna di approcciarsi alla montagna in maniera dolce, meno violenta. Non posso non pensare alla delicatezza che traspare dal suo meraviglioso libro Dove porta la neve, tanto breve quanto intenso, o alla dolcezza di alcuni capitoli de La pelle dell’orso, così come non posso non evidenziare quanto amore abbia messo nella sua nuovissima opera teatrale Da qui alla Luna, nella quale racconta la devastante tempesta che ha colpito le Dolomiti lo scorso ottobre e che è stata anche oggetto di uno dei suoi interventi più toccanti di quel sabato. Ditemi la verità: quanti tra di voi sanno di questa tempesta? Quanti ne conoscono l’intensità, e quanti le conseguenze? Io ero esattamente come voi, ma poi Matteo mi ha aperto gli occhi: “Si parlava di metri cubi, di ettari, ma queste parole non riescono a dare l’idea. Anche quando dico “milioni di alberi”… non riusciamo a vedere 200 persone in una sala, figuriamoci cosa significa vedere milioni di alberi. Iniziamo a capire che sedici milioni di alberi messi in fila uno dopo l’altro possono arrivare fin quasi alla Luna. Con sedici milioni di alberi, e sto parlando di abeti rossi, possiamo fare otto volte il giro della Terra. E sedici milioni di alberi producono l’ossigeno che respirano due milioni di persone nell’arco della loro vita”. 

Sconvolgente. Noi ce ne stavamo seduti lì, in una sala comoda e ben riscaldata nel cortile del Castello Sforzesco di Milano a chiacchierare del più e del meno, e migliaia di metri cubi di foresta piangevano la morte dei loro abitanti senza che nessuno facesse nulla. Ricordo di avere provato rabbia, in quel momento. Gli alberi ci danno l’ossigeno, ci forniscono la legna perché possiamo mettere un tetto sopra alle nostre teste e un pavimento sotto ai nostri piedi, ci offrono riparo durante la calura estiva e ci regalano degli spettacolari dipinti autunnali pieni di colori; come possiamo restare indifferenti davanti a tutto ciò? Come possiamo continuare a pensare che ci sia un muro invalicabile tra noi e la natura? Quando Mauro e Matteo hanno deciso di dare voce ai loro pensieri attraverso la forma del sillabario, lo hanno fatto stringendo un patto: nessuno dei due avrebbe saputo le parole scelte dall’altro prima della pubblicazione del libro. Mi sembra di vederli: “Guarda, qui c’è da parlare di montagna. Le lettere le conosciamo, e conosciamo pure le nostre storie. Ci vediamo fra qualche mese e vediamo cosa è venuto fuori”. Sapete cosa è successo? Che ne è venuto fuori un capolavoro di vita. Uno pensa ai monti e subito vi associa la neve, le passeggiate e le scalate. Certo, come dargli torto, ma nel Sillabario alpino c’è molto di più: ci sono i ricordi di due uomini e quelli dei loro amici, ci sono le storie di piccoli paesi, di animali, di detti popolari e di storie raccontate intorno al fuoco, tutte raccolte in un unico compendio per dimostrare che noi siamo l’ambiente e che l’ambiente è noi: non esiste alcuna divisione, alcuna divergenza. Uomo e natura, natura e uomo. Uno non esiste senza l’altro. 

Mauro ha spesso ripetuto, durante l’incontro, che sarebbe stato meglio comprare questo libro piuttosto che leggerlo, “ché dobbiamo scalzare Fabio Volo dalle classifiche”. Leggetelo, invece. Sfogliatelo alla ricerca di quella parola che evocherà in voi un ricordo, un sentimento o una semplice curiosità: vi accorgerete che in fondo ho ragione, e che c’è un po’ di natura nel cuore di ciascuno di noi, anche in quello di coloro che ancora non lo sanno.

Martina Pizzi

Una opinione su "Il passo del vento"

  1. Non è facile per niente facile togliere il superfluo perché esso stesso ci è diventato essenziale.
    Occorre ricostruirci e ricostituirci. Porci altre mete; ma se a livello individuale è difficile perché provoca l’isolamento solipsistico, travolgere gli altri è impossibile. Comunque la speranza che merge dal tuo pezzo, Martina, è una piccola lucciola.

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