L’America che sognava mia madre
Mia madre mi aveva promesso che da grande avrei potuto camminare a piedi nudi sulla sabbia di Venice Beach, visitare Los Angeles e la baia di San Francisco, per poi trasferirmi in un grattacielo a New York dove lavorare, sposarmi e avere dei figli con una donna fortunata.
Anni dopo, ci troviamo accovacciati in una cella troppo affollata per riuscire a riposare sdraiati, ma lei continua a parlarmi sottovoce delle meraviglie statunitensi che potremo finalmente vedere con i nostri occhi, alla fine di questo lungo viaggio. La sua voce è calore, forza che viene dalla profondità della sua vita; mi fa credere in ogni sua singola parola che continua a sfidare l’evidenza.
La luce rimane sempre accesa nello stanzone in cui siamo confinati, notte e giorno, e io mi addormento addosso ad altri corpi sconosciuti, sognando il Golden Gate Bridge e l’Empire State Building visti nei film. Ogni tanto, una guardia dalla faccia stanca apre la cella e inizia a chiamare alcune persone con il loro numero di riconoscimento, per spostarle da una sezione all’altra.
Mia madre mi ha spiegato che il loro obiettivo è disumanizzarci. Dice che è già successo tempo fa, lontano da qui.
Una volta hanno chiamato il mio numero — sono il 2337 — e lei mi ha coperto il timbro sull’avambraccio attirandomi a sé. Ero terrorizzato. La guardia ha ripetuto il numero un’altra volta, scandendo bene le cifre in spagnolo per farsi capire. Alla terza volta ha cambiato espressione, e ha iniziato a sbraitare che la “puta latina” che stava facendo la furba se la sarebbe vista con lui.
Ho sentito l’indignazione che cresceva dentro mia madre, portandola a stringere, e a mettere in mostra, i denti da lupa — ricordo che ho cercato di tranquillizzarla, mentre lei stava per scattare in piedi e insultare la guardia. È quello che ha fatto e, poco dopo, uno schiaffo l’ha buttata a terra. Sono stato sollevato a mezz’aria e trascinato via come una bambola di pezza senza poter vedere dove la stavano portando. Ricordo il sorriso terrificante di una delle guardie che assisteva alla scena. Le altre se ne stavano in piedi asettiche davanti alla porta metallica che ci separava da loro, con i volti disfatti dai doveri quotidiani loro assegnati. Sembravano non si accorgersi della sofferenza circostante.
Io sono stato trasferito in una cella un po’ più piccola in cui ci sono soltanto bambini. Ho dodici anni e mi affeziono subito a uno di cinque, che si chiama Miguel e fa continuamente le stesse domande che assillano anche me da quando sono qui.
Riesco a rispondere solo al perché siamo confinati in queste gabbie metalliche: non siamo in regola con i documenti, e questo è l’unico posto degli Stati Uniti in cui possono metterci. Me l’ha spiegato mia madre.
Ma che cosa ci tenga separati dai nostri famigliari, e perché dobbiamo dormire sul pavimento, o perché non possiamo lavarci e siamo controllati tutto il tempo da sconosciuti, sono tutte questioni per me incomprensibili.
Quando sento le guardie scherzare fra loro sulla puzza che dilaga in questo posto e sui pianti esasperati che ne attraversavano le mura, la rabbia mi prende la gola e non posso più parlare per giorni, nemmeno con Miguel.
Oggi, dopo mesi in attesa di qualcosa di indefinito, sono venuti a prendermi in cella. Mi portano in un ufficio dove mi fanno sedere a una scrivania per adulti. Una donna in divisa con la faccia severa mi spiega che presto avrò una nuova vita da giovane cittadino americano. Dice che una coppia verrà a prendermi a momenti per portarmi nella mia nuova casa.
Poi aggiunge che mia madre sarà rimpatriata secondo le procedure. Non reagisco; mi ritiro nel silenzio in cerca di un senso — la signora mi scuote con delicatezza e mi indica due persone che si avvicinano sorridenti.
Capisco di essere il loro trofeo, un bambino da tanto desiderato e finalmente ottenuto.
E così è questa l’America che sognava mia madre.
Valeria Delzotti