Questa, ve lo anticipiamo, è un’intervista un po’ speciale. Esattamente tredici anni fa, a Roma, si spense Piergiorgio Welby, figura chiave e primaria per quello che fu il dibattito pubblico sull’eutanasia. Oggi, in un lungo dialogo che è ideale prosecuzione di quello già avuto con Marco Cappato, abbiamo la possibilità di condividere con voi l’intervista che Mina Welby — moglie di Piergiorgio e attuale co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni — ha concesso al nostro redattore.
Il suo nome non necessita certo di presentazioni. Mi interesserebbe, dunque, portare ai nostri lettori quello che è stato il percorso che l’ha condotta sin qui.
Io sono nata a San Candido nel ’37; fin da piccola ero molto autodeterminata, e mia madre doveva davvero sforzarsi per contenermi. Ripensando a lei, ricordo che un giorno mi prese da parte e mi disse: “tu da questo paese te ne devi andare” — aveva già intuito che non mi sarei trovata bene in quel piccolo paese nel quale mi trovavo.

Comunque sia, sono stata supplente alle medie e nel ’73 ho conosciuto Piergiorgio Welby; innamorarmi di una persona con disabilità mi parve normale, visto che fin da piccola avevo capito che malattia e salute fossero argomenti legati alla vita nella stessa misura questa fosse legata al morire. Ora, conoscere Piergiorgio non costituì un’apertura verso chissà quali tematiche, come forse si potrebbe pensare; si trattava, piuttosto, di un semplice sposarsi e convivere, per quanto fossimo vicini anche come idee — io ero più legata a una tradizione cattolica, di chiusura su varie tematiche, mentre mio marito era più aperto, più filosofo rispetto a me. Il suo filosofo preferito era Lucrezio e il poeta Giacomo Leopardi la cui idea di natura credo sarebbe utile ritirare fuori nei nostri tempi moderni. Senza dilungarmi, però, proseguo nel cammino: dopo il matrimonio, avvenuto nel 1980, Piergiorgio iniziò a palesarmi la sua volontà di morire, in seguito a difficoltà respiratorie che aveva, e mi chiese di non chiamare nessuno qualora avessi visto delle difficoltà che avrebbero potuto portarlo alla morte.

Io assentii ma le cose andarono diversamente: dopo 6 mesi iniziai a muovere Piergiorgio sul lettino per farlo respirare meglio. Le cose sono andate avanti finché un medico, informato da Piergiorgio di essere affetto la distrofia muscolare, gli disse che doveva essere ricoverato ma lui rifiutò. Dopo 12 ore, però, Piergiorgio stava talmente male che mi disse “aiutami”. Stette malissimo, entrò in pre-coma, e qui si arriva alla prima scissione importante: se lo avessi capito, certamente lo avrei lasciato morire, e oggi non sarei qui con lei (Federico, N.d.R.) a parlare. Così, chiamato il 118, Piergiorgio arrivò già in coma, e il medico non mi diede alcuna speranza. Intubato, fu portato in Santo Spirito, dove durante la stessa notte si svegliò e lì io piansi, consapevole che sarebbe iniziata una terribile via crucis. Fu tracheostomizzato. Dopo moltissimi travagli, infatti, è stato portato a casa e lì chiese al padre, cacciatore come lui, di sparargli. Dopo circa un mese, io e Piergiorgio abbiamo ripreso la vita in mano, ed è stato lui un grande psicologo, formatore, per me: io, a fianco di mio marito, ho imparato la vita — una vita di resilienza nella quale ha cominciato a scrivere un libro, un romanzo chiamato Ocean Terminal che non è riuscito a terminare ma che è comunque stato pubblicato.

Nel 2002, Piergiorgio ha avuto un grave peggioramento e da lì non è più riuscito a staccarsi dal respiratore. Il medico gli consigliò la nutrizione artificiale e Piergiorgio disse “non l’avrei voluta ma non sono ancora pronto”, intendendo con ciò che non aveva ancora fatto tutto ciò che non avrebbe voluto fare e lì avevo capito che lui avesse in mente di fare una legge sull’eutanasia. Piergiorgio, infatti, aprì un forum chiamato eutanasia — e lì pensai che fosse una battaglia persa, che non avrebbe potuto trovarla in vita — ponendo la libertà di scelta al centro di tutte le battaglie, facendo attenere i medici alla volontà del paziente. Ora: questo, Piergiorgio, lo chiese nel 2002; la legge sulle DAT, nella quale la persona sia libera di scegliere anche una volta incapace di esprimersi, è la legge 219 del 2017, risalente a quindici anni dopo. All’epoca, si era iscritto ai Radicali Italiani, aveva già conosciuto Luca Coscioni, il quale lo volle consigliere generale della sua Associazione; tutte le battaglie tipiche — libertà di scelta, di cura, contro le barriere architettoniche — erano in fasce, potremmo dire, e da lì tutto è nato, compresa la collaborazione con Marco Cappato e Filomena Gallo.
E qui la fermo per arrivare alla seconda domanda. Marco e Filomena, l’ultima volta che li ho visti, presenziavano comunemente alla presentazione ufficiale di CitBot, alla quale ho avuto la fortuna di poter prendere parte. Di ciò, mi interessa evidenziare il maggior pregio che CitBot porta: un’informazione più diretta e consapevole, che avvicini il cittadino a temi che altrimenti non frequenterebbe. Lei come la vede su questo?
Io ho la sensazione che oggi le persone che ci scrivano siano adulti o anziani che non sono riusciti a seguire il mondo. Le persone anziane, che ancora oggi ci sono, hanno bisogno di cura personale; si sentono spesso sole, perché i tempi hanno avuto una corsa frenetica; spesso mi chiamano, dicendomi che vogliono morire, pur non avendo alcuna malattia. Questa stanchezza di vivere, oggi, molto spesso, è riferibile alla solitudine — io sono anziana, forse capisco molto meglio le persone della mia età che ragionano così, ma ancor oggi vado in ufficio, vedo giovani, e dunque non mi sento certo sola o isolata. I giovani, oggi, vivono maggiormente su Internet; personalmente credo che CitBot, rimodulando le risposte (ancor adesso è in fase sperimentale) e correggendosi, in futuro possa far migliorare. Ci sono già altri siti che usano questo format, e credo che il futuro sarà un po’ più spersonalizzato, e di questo direi che ho anche abbastanza paura, perché ci uniamo nel nostro intimo o non credo che possa esserci un’umanità di diritto, di piacere e di aiuto vicendevole, però penso che CitBot possa servire molto magari anche portando a dei punti di legge.
Di miglioramenti necessiterebbe molto anche il cattolicesimo “ufficiale”, non certo nuovo a continue ingerenze. Il Papa, in merito alla sentenza della Corte Costituzionale recentemente rilasciata, si è espresso in maniera fortemente contraria, con dichiarazioni anche di un certo peso. Lei come la vede su questo punto specifico?
Sinceramente, nel mio profondo, ho forti dubbi che sia stato Bergoglio a dire quelle parole, poiché per esempio aveva già detto che non sempre le persone chiedono di morire. Io credo che il Papa sia molto aperto anche per le necessità delle persone, e dunque sarei piuttosto stranita dal sapere che queste siano parole sue e non di altri — credo piuttosto che ci sia qualcuno che voglia proteggere il Papa con una “didattica” della Chiesa. Io credo che il morire debba veramente venire dalla vita da un terreno di gioia, tristezza, cose difficili, sopraffazioni, ma che anche la morte venga dalla vita e credo sia intrinseco; personalmente, penso che debbano essere presi in considerazioni i casi non salvabili da una morte terribile e dolorosa, e credo che sia giusto desiderare tanto una vita felice, così una morte felice, come dice Hans Kung.
A questo proposito le chiederei un commento sulle parole forti e discutibili pronunciate da Gualtiero Bassetti, presidente della CEI: “Vivere è un dovere”, secondo il cardinale…
No. È un piacere il poter vivere — non credo che una vita debba essere fatta in sofferenza. Io non sono Gesù sulla croce né mi voglio equiparare — lo troverei, da cattolica, una comparazione non dovuta: io sono fragile, faccio ciò che posso, ma non voglio assolutamente vivere in quelle condizioni.
Nell’intervista a Marco Cappato, avevo chiesto quali sensazioni avesse visto in chi stava per salutare per sempre la vita, con un focus particolare sull’angoscia. Lui rispose dicendo che “non c’era angoscia. L’angoscia personalmente la vedo più legata alle mediocrità della vita, agli eventi di tutti i giorni: quando invece è il dramma della vita, e quindi anche quello della morte, a presentarsi, non c’è spazio […] per l’angoscia.”. Condivide?
È esattamente ciò che penso. Essendo stata accanto a Piergiorgio, ho vissuto dentro di me l’angoscia di perderlo negli anni, a cominciare dal 2002 in poi, mentre lui è sempre rimasto al mio fianco ricordandomi che stavamo avvicinandoci alla fine, vivendo quei momenti con grande determinazione, piuttosto che con angoscia. C’è addirittura, le dirò, della contentezza: l’angoscia l’abbiamo noi — nel non riuscire a rimettere in ordine, nel non poter ricominciare, nel temere di non avere tutto a posto. E, se da parte di chi compie queste scelte, angoscia non c’è, io desidererei che nessuno dovesse più provare un sentimento simile in una situazione come questa.
Vorrei ora portarla su argomenti spero meno usuali rispetto alle interviste cui è abituata. Nello specifico — se ha voglia di prestarsi a questo piccolo gioco — le leggo tre frasi di tre pensatori a me molto cari: “L’amore più forte è quello capace di dimostrare la propria fragilità.”, di Paulo Coelho; “Noi viviamo come se dovessimo vivere sempre, non riflettiamo mai sul fatto che siamo esseri fragili.”, di Lucio Anneo Seneca; e “La fragilità rifà l’uomo, mentre la potenza lo distrugge, lo riduce a frammenti che si trasformano in polvere.”, di Vittorino Andreoli. A me, queste riflessioni, personalmente, paiono vicine alla sua esperienza, per come me l’ha appena presentata. Lei cosa ne pensa?
Lei non sbaglia affatto (ride, N.d.A.): sono tutte e tre delle sensazioni che vivo. La fragilità crea l’uomo, perché l’uomo è fragile, proprio nella sua struttura fisica; l’unica cosa non fragile dell’uomo è il suo pensiero, la sua determinazione, la sua sicurezza, che aiuta a vivere sempre meno fragilità possibile, per trovare un modo di resilienza per vincere e convincere. Io credo che la cosa più grande che l’uomo abbia nelle sue risorse sia l’amore, e io credo che vada sopra a tutto, su tutto il resto, e che sia in grado di andare oltre tutto: ciò che un uomo o una donna fa per amore non lo farebbe per null’altro al mondo. Io credo che l’umanità sarebbe davvero povera se non ci fosse l’amore.
Altra curiosità che vorrei togliermi è la seguente: se dovesse fornire solo tre parole per descrivere le due figure di Piergiorgio Welby e Marco Cappato, quali userebbe?
Piergiorgio è stato uno psicologo, ma anche un pensatore politico — e proprio Cappato, tante volte, mi indica Piergiorgio come il precursore di Fabiano Antoniani, cioè come colui che ha dato la forza per fare una azione civile. A questa parola ne aggiungerei altre due inscindibili da lui: amore e resilienza.
Anche per Cappato userei sicuramente la parola amore. Io lo conobbi tanti anni fa e imparai moltissimo da lui e da Pannella — il quale fu fonte sia per lui sia per Piergiorgio e che quindi uso come seconda parola, se mi è concesso. Dopo amore e Pannella, userei la parola disobbedienza. E io, la disobbedienza, la amo: perché disobbedienza non è fare qualcosa contro qualcuno, ma è fare ciò che aiuta a migliorare qualcosa.
A un evento Bookcity al quale ho preso parte, un’illustre voce (che poi ho avuto la fortuna di poter conoscere personalmente), e cioè Vito Mancuso, poneva come problematica principale — e anche peculiare — del nostro tempo la cosiddetta “ignoranza ostentata”, ossia quel fenomeno per il quale la stessa ignoranza che nel passato veniva nascosta con vergogna, oggi viene esibita come se fosse qualcosa da sbandierare, con il mancato rispetto e ascolto verso l’intellettuale, o chi studia, o chi è competente su certe tematiche che ne è diretta conseguenza. Lei come la vede su questo?
Credo che l’unico modo sia cominciare dai genitori. Se i genitori stessi vogliono essere protagonisti della stupidità e della ignoranza presente sui social, ciò non può che ripercuotersi sui figli. Anche se credo che ognuno abbia la chiave per sconfiggere l’ignoranza e la stupidità, ritengo sia assolutamente necessario crescere informati; insegnare la Costituzione nelle scuole; educare all’importanza della scienza — perché la scienza è il sapere, il conoscere, l’elevare le masse. E pensare che molti giovani si sentano più a loro agio lontano dal nostro Paese, facendo dell’Italia un paese scarno di scienza e di scienziati, è qualcosa che mi spaventa moltissimo.
Sulla scorta di questo invito culturale che lei ha appena lanciato, le pongo l’ultima domanda di questa intervista, ringraziandola davvero per il grande onore che mi ha concesso: noi qui su Bottega di idee, come ha avuto modo di sapere parlando con me, ci poniamo come scopo fondamentale quello di diffondere cultura, e di avvicinare a essa il mondo che più ci appartiene, cioè quello dei giovani. Lei cosa ne pensa di questo tentativo e quale consiglio dà ai ragazzi?

Ragazzi, leggete. Leggete tanto ma sappiate scegliere cosa leggere. Fatevi una struttura di ricerca. Scegliete autori importanti e fatevi formare da loro: ci sono grandi pensatori e grandi poeti che vi possono cambiare la vita — penso a Leopardi e Severino, per dirne due, ma ci sono molti esempi. Seguite la musica, la poesia, il teatro, tutto ciò che è arte in generale. Poi, certo, non c’è solo la letteratura, ma anche la politica. Ognuno ha la sua specialità e può continuare, confrontandosi, ad andare avanti. Io credo che noi abbiamo tanta ricchezza per come siamo nati, e credo che questo vada incentivato in ogni modo possibile.
Mi conceda un’ultima cosa: sono io che ringrazio voi per questo bel dialogo, e poterlo condividere in questa giornata così speciale per me, a tredici anni di distanza dalla sua ultima scelta, è davvero una bella opportunità — mi sembra quasi di poter camminare insieme a lui. E se per voi queste cose possono risultare toccanti, mi creda, per me sono una realtà: lei pensi che ogni giorno nel quale esco di casa, guardo il suo autoritratto e me ne esco sussurrando “ciao Piero…”
Federico