È il 31 dicembre. A mezzanotte, si esprime un desiderio; prima di mezzanotte, si legge Così cuccò Zarathustra! Dopo il primo episodio natalizio, oggi Carlo tira le fila: come andrà a finire la storia di Elvio e Camilla?
In cima alla collina, non c’è il grosso abete che si aspetta, ma il solito alberello striminzito, alto neanche mezza gallina. L’Elvio, sentendosi come preso in giro dal mondo, tremante, scaraventa la sua berretta sull’albero e corre via verso casa. La Camilla, abbandonata di nuovo, si fa ancora più arrabbiata con quell’uomo pazzo e instabile.
Il giorno dopo, lui, tornato all’albero, stando attento alla strada, lo ritrova alto e spesso come è sempre stato e come dovrebbe essere. Indignato, ci si arrampica fino alla cima e ritrova la sua berretta di lana gialla.
Quell’anomalia in quelle leggi universali che lui riteneva immutabili lo fa impazzire. Eppure la neve continua a essere fredda così come il passato di verdure continua a scottare.
Riprova un’ennesima volta a tornare alla collina con la Camilla, ma ancora l’abete sembra essere appena spuntato.
Lei diventa ancora più bella ogni volta che lo accarezza e gli propone di stendersi assieme nella passione; i suoi occhi si fanno ancora più azzurri; non è facile sottrarsi agli abbracci e alle lusinghe; l’animo ne è dilaniato.
Come può sopportare un tale conflitto interiore? Quell’albero lo sta distruggendo e lo affligge nell’intimo della sua testa e, a forza di fingere malori, anche della sua pancia.
La tensione cresce nella coppia di giovani sposi, lui arriva a confessare di come per il momento preferisca non avere bambini, dato che ancora non hanno una salda sicurezza economica e non si sente pronto — ed è anche tempo che la donna si emancipi dalla natura, sostiene.
La Camilla quasi non gli parla più, si fa dissuadere dal prete dall’idea del divorzio, è ancora troppo presto e in fondo l’Elvio è proprio un brav’uomo, sempre gentile e premuroso, gli porta pure il caffè a letto, non può abbandonarlo, deve aspettare.
Il marito prova ancora un paio di volte a raggiungere l’albero con la sua amata, ma sempre la conifera resta alta un piede e sempre ricresce enorme quando la visita da solo.
Dopo tre settimane di matrimonio passate nell’angoscia, arriva Natale. La Camilla chiede al suo caro sposo di trovargli un bell’albero da addobbare, sottolineando però, con tono arcigno, di volerlo piccolo, grande massimo quanto un avambraccio — così almeno a Natale si può divertire, anche se da sola. Colpito da un affronto così diretto l’Elvio esce di casa sbattendo la porta, con gli occhi pieni di disperazione, e, al colmo della frustrazione, si dirige nel bosco. Schiumando e sbavando, col fiatone, ripensa alla sua dannata moglie e al suo dannato matrimonio e ai suoi dannati antenati e a quel dannato albero e alla dannata scure che tiene dietro casa.
Torna indietro, prende la scure e si dirige verso la collina. Con il viso sfigurato dalla corsa, dal muco, dalle lacrime, dalla bava e dalla rabbia, giunge ai piedi dell’abete e comincia a battere. Spac, Spac, Spac, la scure si addentra nel corpo dell’albero. Spac. L’immensità della rabbia lo rende instancabile. Spac, spac, spac. A ogni ferita un anello è tagliato. Il tronco si assottiglia. Spac.
L’abete cede e rovina al suolo in tutta la sua altezza, l’Elvio lo guarda spiritato e affannato. Di colpo i suoi occhi si spalancano all’estremo; cade a terra morto. Steso, come l’albero a fianco.
La Camilla, la mattina, esce di casa preoccupata; imbocca il sentiero per il bosco; spaventa una cincia che si era appena appoggiata su una pigna. “Chissà dove sarà andato l’Elvio”, pensa, “forse sono stata troppo dura in questi ultimi giorni”. Eppure, si risponde, nella vita o si vive o si muore, e quel maledetto di suo marito la voleva tenere fredda come una tomba. Gira in lungo e in largo misurando ogni angolo dei dintorni della loro abitazione, scende pure fino alla chiesa e alle poche case li intorno, ma nessuno lo ha visto.
«Ehi bella Camilla tranquilla che se l’Elvio non si trova ci sono qui io per tenerti caldo eh», sogghigna il fornaio.
Torna a casa, in cerca di qualche biglietto o spiegazione che magari potrebbe aver lasciato il suo sposo, fruga anche sulla mensola nella pila di libri che appartenevano al padre dell’Elvio, da lui mai neanche sfiorati. Si imbatte in un diario ancora più vecchio delle altre carte. In copertina si legge il nome Friedrich — deduce quindi che sia del bisnonno. Lo apre dove è posto il segnalibro. Parla di quando una volta, in cui stava lavorando come boscaiolo proprio sulla grande collina a monte della casa, si imbatté in un orso enorme. Fortuna che non aveva ancora tagliato l’ultimo albero in cima, così si precipitò nell’arrampicata di quell’abete. L’orso quasi lo raggiunse, salendo coi suoi artigli sul tronco, arrivò a sfiorarlo con una zampa. Non riuscì a prenderlo, ma prima di scendere con un balzo gli azzannò e staccò entrambe i piedi, mangiandoseli poi con estremo gusto. Friedrich si salvò da quell’avventura quasi intero e per la gioia di sua moglie non ebbe più occasione di entrare in casa con le scarpe sporche.
La Camilla chiude il libro e corre su per il sentiero verso la collina, giunta in cima le si affaccia uno spettacolo raccapricciante.
L’Elvio giace a terra stecchito a fianco al cadavere di un enorme abete. Per di più, una bestia gli ha mangiato i piedi. Si inginocchia a terra piangendo. In fondo, gli voleva proprio bene.
Ritirando su un poco la testa nota un vecchio seduto sul tronco abbattuto, lui sorride e la guarda sereno. Colpita la Camilla salta in piedi. «Oh bella tranquilla tranquilla». Lei resta zitta, bloccata, rimane ferma. Il vecchio innalzando le ciglia dice gentile: «Sono Zarathustra, siediti, siediti dai», poi come incurante si gira e si guarda un po’ intorno, canticchiando. Si volge nuovamente verso la donna: «Eh Eh, troppo a fondo ha battuto la scure». Accennando con la testa al cadavere sdraiato, avvia quello che sembrava proprio essere un lunghissimo discorso: «L’avevo visto solo una volta quando era bambino l’Elvio — sai, ero un grande amico del suo trisavolo Friedrich. Ma ahimè, non basta la zuppa di serpente per intendere le cose, no-nno. Friedrich, invece, aveva capito come gira il mondo. Povero Elvio. Certo non è facile capire cosa gli sia capitato. Per la verità non ne sono sicuro neanche io. Il vero cruccio è come funzioni il tempo. Ne avevamo parlato tanto io e Friedrich. Di certo il tempo è un cerchio, un cerchio vorticoso. Una clessidra che si capovolge di continuo. Eterno ritorno, lo chiamano quei matti dei greci. La fine è l’inizio, mia cara. Ma sarà sempre uguale o sempre diverso? Se io taglio un albero, sarà sparito per sempre o ricrescerà spontaneo ad ogni giuntura del cerchio? Forse entrambe le cose. Certo si potrebbe sempre ripiantarlo. Ma se fosse tolto per l’intero cerchio lo sarebbe quindi per tutti coloro che lo vogliono arrampicare, una possibilità che frullava nella testa di Friedrich da quell’incidente con l’orso. In parte Friedrich ci credeva veramente di essere padre dei suoi antenati, insomma figlio di sé stesso. Ma se un uomo cade, eh eh… il girotondo salta! Così il nostro Friedrich inventò quella tradizione dell’albero. Impedendo che l’abete fosse tagliato, avrebbe potuto ancora arrampicarsi in cima per salvarsi dall’orso. Proprio un bell’escamotage. Il massimo che ha trovato. Oh ssi-ssi, chi taglierebbe un albero sotto cui è stato procreato, sotto cui praticamente è nato? Chi sarebbe così in odio con i suoi antenati? Una certezza. Tanto certa da reggere quante? Tre generazioni? E addio albero, addio Friedrich e così, addio Elvio. Nessuno però sa quanto sia vasto il cerchio… Di certo Friedrich aveva sottovalutato le varie giunture. Sai, vi è la possibilità che ogni cerchio abbia la sua giuntura, prima o poi il cerchio riparte e quindi l’albero naturalmente si fa piccolo, poi il fusto ricresce per diventare alto e forte. Questa volta la giuntura gli ha giocato un brutto scherzo all’Elvio, vero? Sembrerebbe proprio così. Eppure vi sono quei piedi mangiati. Che sia l’Elvio morto di spavento alla consapevolezza di non poter scappare dall’orso? Da bambino certo, quando l’avevo conosciuto, aveva paura di tutto. Chissà. Forse Friedrich riteneva semplicemente che lo spavento, la paura che uccide, è la stessa per ogni generazione, come ogni aspirazione e ogni gioia, ritorna. Forse cambieranno gli occhi delle donne e degli uomini che si stringono e consolano a vicenda, ma gli sguardi, gli sguardi restano sempre gli stessi. Non capisco quindi se Friedrich amasse più sé stesso o l’Elvio. A cosa teneva? Comunque sia, però, in fondo, il cadavere è lì e tu comunque sei qua, non mi pare sia svanito nessuno. Quindi o il ripetersi dei cerchi è in realtà una fitta spirale, o qualcuno deve aver per forza ricucito il cerchio. Non credi? A parer mio è la seconda ipotesi. Già.»
Finito di parlare, il vecchio lancia un occhiolino alla Camilla, le fa un cenno verso casa, ed ecco che i due si incamminano a braccetto giù dalla collina.
Lei, aggrappatagli a una spalla, sorride.
Così cuccò Zarathustra.
Carlo