Gianni Canova è Rettore dello IULM, cinefilo da sempre e uno fra i massimi esperti di cinema in Italia. Ha scritto, parlato e letto ovunque, su libri, tv, e giornali. Dopo averlo conosciuto in occasione di un evento a Bookcity, Federico ha avuto l’onore di parlare di cinema con lui nel dialogo a cui vi lasciamo.
Il suo nome certo non necessita di introduzioni. Qual è stato il percorso che l’ha condotta sin qui? Come, insomma, da cinefilo si è trasformato nel grande esperto di cinema nonché Rettore di una Università?
Io ho avuto la fortuna di poter trasformare una passione in professione. Ho mangiato pane e cinema sin da bambino, per me era una vera e propria ossessione; quando sono andato all’università (ho fatto la Statale tra gli anni ’70 e gli ’80), il cinema non era contemplato tra le materie di insegnamento: quando andavo a chiedere una tesi di cinema mi guardavano con sussiego, dicendomi quasi con disprezzo che il cinema non avesse a che fare con la cultura. Sono cresciuto da autodidatta, seguivo incontri e lo facevo per passione, ho fondato riviste — Duel, Duellanti e 8 e 1/2 — marcate da una forte identità, con una forte idea di cinema ma anche di mondo. Ho scritto articoli un po’ ovunque e contemporaneamente ho scritto libri.

Mantenendomi come professore di italiano e latino, scrivevo, leggevo e studiavo, scrivevo-leggevo-studiavo, in un ciclo senza fine. Poi è arrivata la televisione, fino al culmine raggiunto con Sky; e poi l’Università, ho provato a fare concorsi, li ho vinti, sono diventato Professore Ordinario, e poi la sorte ha voluto che fossi il primo professore di Cinema a diventare Rettore di un’Università. Credo anche sia il caso di dire che per sei anni ho lavorato in un grande magazzino, in Provincia di Milano, dove scaricavo materassi; lavoravo dalle 6 alle 12 e con quanto guadagnavo mi mantenevo e al pomeriggio andavo al cinema e scrivevo, leggevo e studiavo. Se c’è una cosa che credo il mio percorso possa insegnare (e non a caso lo dico spesso ai più giovani) è che con determinazione e tenacia si può davvero riuscire a vivere con le proprie passioni.
Nell’ultimo dialogo cinematografico avuto, avevamo concluso con una riflessione sulle tre frasi che seguono — “Il cinema è una reinterpretazione del mondo”, Gaspar Noé; “Il cinema è il come, non il cosa”, di Alfred Hitchcock; “Il cinema non morirà mai, ormai è nato e non può morire: morirà la sala cinematografica, forse, ma di questo non mi frega niente”, di Mario Monicelli. Lei concorda? Dissente? Cosa vuole aggiungere?
Quella che sottoscrivo senza se e senza ma e che condivido totalmente è la frase di Hitchcock. Il cinema è il come, e il come determina anche il cosa: e se non può esistere un cosa senza come, può invece esistere un come senza cosa, cioè un puro esercizio cinematografico. Monicelli lo sottoscrivo al 90% ma levando il “non mi frega niente”, nel senso che mi interessa l’eventuale morte della sala cinematografica: il cinema in sala è sessuale, sensuale; se non si è in sala non lo è, e si viene a perdere un elemento importantissimo. Non concordo affatto, invece, con Noè e di quel cinema mi importa poco; mi interessa di cinema come creazione di mondi, piuttosto, e casomai mi interessa molto del cinema come interpretazione del mondo, non certo come reinterpretazione del mondo.
Quando l’ho conosciuta a Bookcity lei aveva detto come ritenesse scandaloso che il nome di Hitchcock non si rinvenisse tra i registi considerati come migliori di sempre, specificando anche che il suo rapporto con questa regista è molto particolare e stretto. Ci racconta di questo?
Tuttora, se si vuol far capire a un ragazzo che cos’è il cinema, Hitchcock è uno dei tre-quattro che bene lo illustro al di là delle mode: è uno di quelli che, come scriveva Truffaut, pensa per immagini, pensa visivamente; riesce a mettere in scena alcuni dei sentimenti primordiali dell’umano senza bisogno di ricorrere ai dialoghi; riesce a rendere visibile senza il bisogno di visualizzare, e questa basta a rendere la sua grandezza. Ha una capacità unica di lavorare sull’immagine essendo uno dei più grandi creatori di forme di tutto il Novecento, di tutte le arti: basti pensare al lavoro raffinatissimo su alcune tipologie che ricorrono (la finestra e la cornice, per esempio) lavorate con raffinatezza degna dei pittori dell’Umanesimo e del Rinascimento; basti pensare a una tecnica di suspense che ha inventato lui e che ancor oggi ci tiene incollati agli schermi; basti pensare a come faccia il vero cinema del nulla, con personaggi che non si vedono mai: la madre di Norman Bates, in Psyco, non si vede mai; La donna che visse due volte non si vede mai; in Intrigo internazionale il protagonista è colui che viene scambiato per una persona che non è, mentre il suo personaggio non esiste… Hitchcock prende il nulla e gli dà una forma, dialogando in maniera straordinaria con la storia dell’arte occidentale.
Abbiamo passato da pochi giorni i Golden Globe (l’intervista viene registrata l’8 gennaio, N.d.R.) e una delle cose che più ha fatto discutere è stata la mancanza totale di premi raccolta da The Irishman. Cosa ne pensa lei dei premi e del sistema che assegna premi ai film?
Capisco che i premi abbiano una loro logica. Mi interessano fino a un certo punto, nel senso che c’è un elemento di discrezionalità inevitabile e che rende ogni premio discutibile. Se uno partecipa e sta al gioco si espone a giudizio. Spesso, anche gli Oscar, sono più premi aziendali, che premia i propri prodotti più di successo. Se lei pensa che quelli che tra Alfred Hitchcock, Stanley Kubrick, Charlie Chaplin, Orson Welles e Luis Buñuel — e cioè cinque giganti della storia del cinema — nessuno abbia mai alzato un Oscar, si rende conto di ciò che intendo. Ciò non mina la credibilità degli Oscar, ma semplicemente dà l’idea di ciò che sono: e cioè un premio che l’azienda Hollywood assegna ai propri prodotti che segnala come migliori, né più né meno. Per quanto riguarda l’assenza di The Irishman dai Golden Globes mi amareggerebbe se fosse perché sia stato prodotto da Netflix; se invece fosse una scelta di gusto, in parte, potrei anche condividerla.
Dalle due risposte che ha appena fornito emerge questa evoluzione del cinema, sia come produzione sia come visione: come si può leggere questo allontanamento dalla sala cinematografica in favore del PC o dello smartphone, sia da parte di chi produce sia per chi semplicemente fruisce del prodotto cinematografico?

Per un produttore è una grande conquista, che consente peraltro anche al giovane regista esordiente di Busto Arsizio di mettere un proprio film a disposizione di un utente coreano o cileno; questa dinamizzazione del mercato, dunque, per questo verso è certamente positiva. D’altro canto, pur specificando come io stesso usi queste piattaforme (anche se il cellulare no, perché il cinema sul palmo di una mano proprio non mi interessa), devo anche dire che il cinema non sia un medium interattivo: è un mezzo di comunicazione di massa autoritario, che porta dove non avresti mai scelto di andare — ed è questo è ciò che mi ha fatto crescere. Il cinema del Novecento è stato un mito perché era più grande di noi, e dunque lo vedevamo nel buio, lo meditavamo, lo amplificavamo, in un rapporto diretto ed erotico che, in una sala di casa propria, in penombra o addirittura alla luce, magari con la distrazione del proprio telefonino, non può ingenerarsi. Credo si debba trovare un altro nome per definire quel tipo di fruizione, perché di certo non si può parlare di cinema: il cinema è sentirsi piccoli di fronte a uno schermo grande in una sala buia in mezzo ad amici e sconosciuti, non altro.
Almeno tre dei cinque registi che lei ha sopra citato (Chaplin, Buñuel e Hitchcock) non vengono certo ricordati dalla massa come i giganti che sono stati: se si chiede a un utente medio, o anche a un critico, chi sia il regista più grande di sempre, si spazia tra Kubrick e Fellini, ma di rado si sente uno di quei tre. Se su Hitchcock si è già espresso, quali ragioni vede alla base della svalutazione degli altri due?
Su Chaplin mi sembra talmente evidente che ho difficoltà a dirlo… ci può essere pregiudizio per il comico, che qui in Italia viene un po’ considerato cinema di serie B, e dunque su Chaplin può esserci un po’ di pregiudizio legato al comico; Buñuel ha una capacità di corrodere il pensiero dominante, il pensiero comune, che è davvero difficile da ritrovare, e credo che alcuni suoi film siano bombe a orologeria che sono state messe in condizioni di non nuocere, e spero che i giovani che non lo conoscessero, e che scorreranno queste righe, possano correre a vedere i suoi film.
Come le ho detto privatamente, il suo dialogo segue a quelli avuti con un giovane regista dopo il suo esordio e all’ultimo, dicembrino, avuto con una delle due persone che gestiscono il Cinema Beltrade, un cinema dove ancora si prova (e si riesce) a far vedere film in originale sottotitolato, fuori dai circuiti più noti, con una multiprogrammazione e molti incontri con registi e produttori. Che consigli darebbe a un giovane regista e quale commento vuole esprimere su chi, ancor oggi, prova a mandare avanti una sala cinematografica in questo modo?

Consigli che darei a qualunque giovane regista prima del suo lancio: vedere, vedere, vedere. Chi non ha visto molto non può andare lontano. Leggere, leggere, leggere. E in aggiunta: vivere, vivere vivere. Se il film l’avesse già fatto, tener conto che la comunicazione è un elemento decisivo. A Hollywood, se un film costa 100, si investe 100 in comunicazione; se da noi un film costa 100, si investe 2-3 in comunicazione: bisogna essere bravi e furbi anche a rendersi interessanti e a trasmettere bene la propria immagine. Sul Beltrade, chapeau: mi inchino a questi prodotti fuori dal coro, portati con passione, tenacia e coraggio, con proposte anomale e fuori scala. Riuscire a reggere anche economicamente un’impresa di questo tipo merita il massimo rispetto.
Per concludere, le chiederei un auspicio che Gianni Canova, non in quanto storico del cinema, cinefilo o Rettore, ma in quanto cittadino, uomo, persona. Come vuole terminare questo nostro dialogo, di cui colgo l’occasione per ringraziarla?
Sono giorni in cui tutti parlano — e parleranno — di Fellini. Io di Fellini amo una frase, e la amo non solo per il cinema ma anche per la vita. In una cultura come la nostra, prigioniera di un realismo ad ogni costo, ricordo questa massima: “l’unico vero realista è il visionario”, e con questa frase mi piace lasciare chi ci legge.
Federico