Io sono il porcospino
È il 18 ottobre 2019. Incuriosita dalle locandine dell’evento affisse in quel dell’Università di Pavia, scelgo di varcare le porte dell’Almo Collegio Borromeo per partecipare al Seminario I molti colori dello spettro autistico. Diagnosticato Asperger: un’esperienza vissuta.
All’interno di una leggera cornice architettonica, davanti a un maestoso portone, scorgo Doctor Nowhere, unico tra i tanti. Lui è Simone Miraldi, classe 1996, diagnosticato Asperger all’età di sei anni. Partiamo da qui. Che significa Asperger? E, prima ancora, che importanza ha oggi una — o meglio: la — diagnosi? Ormai, nel 2020, gli specialisti s’interrogano, scavano, ricercano per giungere a un’etichetta. Quali pro? Quali contro? Da un lato, pazienti e parenti colgono nella diagnosi un’occasione per concentrare — dal latino cum centrum, mettere al centro — ciò che era disperso. Finalmente si tira un sospiro di sollievo, si acquisisce una forma in una nuova dimensione riconoscendosi in un altro posto e non fuori posto. D’altra parte, è necessario che la diagnosi non sia considerata un punto fisso, bensì un punto e virgola, un’opportunità per fiorire nuovamente. È dalla diagnosi che Simone e i suoi genitori sono ripartiti, forse senza mai essersi fermati prima e soprattutto avendo sempre respinto la negazione, la giustificazione, favorendo anzi un continuo stimolo e promuovendo una piena accettazione di sé.
Sindrome di Asperger: disturbo dello spettro autistico ad alto potenziale che comporta l’adozione di schemi di comportamento ripetitivi e stereotipati, spesso riconducibili a una ristretta gamma di interessi.
È su questo sfondo che Simone prende la parola dall’alto della cattedra dell’Aula degli affreschi del Collegio Borromeo. Dall’alto, esattamente, e pure con tanto di cappello nero sul capo, rappresentativo dell’aristocrazia, perché di quella vuol sentirsi parte. Sguardo consapevole e autoironia dominano la scena mentre fa luce sull’argomento. Lo slogan, se così lo si può definire, è: “Non è il problema, sono i problemi”, poiché Simone affronta quotidianamente sempre (quasi) per la prima volta micro-problemi che si ripetono in una reiterazione continua. Difficoltà a livello sociale, relazionale, nella comprensione dell’altro, nel capire com’è preferibile comportarsi nei vari contesti, come se gli mancasse il manuale del come vivere.
“Vedete come sono seduto?” — questa la provocazione del giovane Doctor Nowhere. “Sembro apparentemente una persona normale, ho imparato a sedermi composto, ma per me non è un automatismo. Ogni piccola azione costa una fatica, ho bisogno di uno sforzo, di grande attenzione, perché quando sono in camera mia sono solito star sdraiato su un pouf per la maggior parte del tempo. Adotto posizione strane agli occhi degli altri, ma io sono comodo scomposto, pensate che da bambino leggevo sul divano a testa in giù.”
“Quando mi presento — ‘Ciao sono Simone, sono autistico’ — le persone mi rispondono incredule, dicendo che non si vede. ‘Ci credo’, penso io, sono vent’anni che imparo le vostre norme e i vostri modelli di comportamento. Vorrei però precisare che questo non significa che sono meno autistico, bensì più sociale.”
Il Seminario procede con il prezioso contributo del Professore Marco Francesconi, il quale adotta una chiave di lettura psicoanalitica per sottolineare che la mente autistica è sovraccaricata da una lunga serie di processi cognitivi faticosi, ma necessari, al fine di avere una rappresentazione di tutte le operazioni da svolgere per produrre un’azione nella società. A questo punto, Simone presenta l’episodio del dentifricio: “Quest’anno (2019, N.d.A.) ho comprato per la prima volta un dentifricio, ci è voluto del tempo prima che ciò accadesse, ho premuto per giorni l’ultimo tubetto che mi era rimasto cercando di procrastinare il più possibile l’acquisto, per me, dell’anno. Mi dicevo – ‘Dove si compra un dentifricio? In che negozio devo recarmi? Forse è meglio chiedere a mia madre.. E se non dovessi trovarlo? Beh, forse dovrei chiedere alle commesse… Ma se mi dicessero che ho sbagliato negozio? Che figura ci faccio? E poi, quale dentifricio dovrei acquistare?’ – così per giorni mi sono interrogato a fondo per avere una rappresentazione mentale del processo di acquisto del dentifricio.. e l’ho comprato!”
Ora credo che sia illuminante riportare un ultimo aneddoto quotidiano di Simone. Siamo nel refettorio del collegio, entra un ragazzo che indossa sempre una polo, mette il badge, prende il suo pasto e si siede spesso allo stesso posto in un tavolo in cui non c’è nessuno. Così, ogni giorno, ad ogni pasto. La ragione? La catena di pensieri di Simone lo porta alla seguente conclusione: “Io non voglio imporre a qualcuno di sopportare la mia presenza, quindi devo sedermi a un tavolo in cui non c’è nessuno, nemmeno miei cari amici, dopo ormai quasi cinque anni da collegiale. Se qualcuno, però, volesse venirsi a sedere con me è ben accetto.”
“Per proteggere te dagli altri o gli altri da te?”, chiede allora una voce dal pubblico.
“Mh, forse entrambi – ammette Doctor Nowhere – Si pensi al dilemma del porcospino di Schopenhauer, dice Simone da buon studente di filosofia: vorrebbe socializzare, ma quando si avvicina agli altri punge ed è punto. Ecco, io sono il porcospino”, firmato Doctor Nowhere.
Vorrei concludere con una riflessione, intrigante in prospettiva psicoanalitica, sorta nel corso del Seminario. Si consideri la duplice firma d’autore di Simone: Doctor No Where, ovvero soggetto presente nell’assenza totale, in nessun luogo, nemmeno in un nonluogo, avente un sé immateriale, a nuclearità differente, privo di un centro da cui partire per l’esplorazione del reale; oppure Doctor Now Here, cioè adesso e qui, in un tempo definito e allo stesso momento in continua trasformazione, e in un luogo preciso, specifico di ogni situazione particolare.
In quale delle due possibili forme si colloca Simone? Forse entrambe? Probabilmente la risposta può essere colta nelle parole stesse di Doctor Nowhere quando ci parla della valenza terapeutica che ha avuto per lui il teatro. Simone mette in luce la possibilità offerta dal teatro al fine di coltivare l’empatia nel rapporto con gli altri, di sperimentare in gruppo, di mettere in leva l’Io negli altri (per altro titolo di un libro da lui pubblicato), indossando abiti non propri senza però sentirsi spersonalizzato; c’è un centro, quel centro.
“Posso travestirmi da un personaggio, ma sono io, Simone Miraldi, Doctor Nowhere, nei panni dell’attore in scena.”
Annalisa Berbenni