“Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere.” — José Saramago
Cara memoria, io ricordo.
Ricordo di quando, quindicenne, aprendo gli occhi, mi accorsi di essere stato picchiato.
Ricordo di quando, dodicenne, scrivevo trattati contro Leopardi sulla razionalità del suicidio.
Ricordo di quando, ventenne, digitavo testamenti folli per preservare la mia libertà di essere così folle da potermi uccidere.
Cara memoria, io ricordo.
Ricordo di quando, a sei anni, duecento persone si stupivano delle mie letture di poesie.
Ricordo di quando, dopo ogni spettacolo, rimanevo indispettito dal fatto che i complimenti fossero per me e non per quanto messo all’opera da tutto il gruppo.
Ricordo di quando una persona straordinaria mi definì “pubblicamente complesso”.
Cara memoria, io ricordo sempre. E tutto. E nei dettagli.
Di ogni sogno, cara memoria, saprei dirti colori, personaggi, scene, sequenze, trama, significati. Su tutto il mio passato, cara memoria, potrei vergare fiumi di pagine, ed entrare in ogni dettaglio. Ogni successo e ogni dolore, cara memoria, sono scolpiti in me, pietrificati in quell’impervio e malinconico terreno che è il mio cuore.
Cara memoria, hanno provato a disegnarti, a cantarti, a scrivere e persino parlare di te. Cara memoria, ogni anno, ogni 27 gennaio, orde di deliranti umanoidi compongono testi formati da parole vuote, create ad arte per fingere di star ancora ricordando — nel senso etimologico della parola, cioè di richiamare alla mente — una strage che, in realtà, tutti (o quasi, purtroppo) vorrebbero cancellare, ben più che dimenticare o ricordare.
Perché sì, cara memoria, tu sì che lo sai bene: quella che il tuo più illustre amante definì “ricordanza” si ha soprattutto quando si pensa a sé. Le prime cose che ricordiamo, noi umani, sono quelle che riguardano noi: le nostre personali gioie, di cui ci giova il ricordo; i nostri personali dolori, dai quali dovremmo apprendere e nei quali invece, sempre, ricadiamo, circondati e schiacciati da quell’infinito nastro di Möbius che è l’esistenza.
È questo, cara memoria, che ogni 27 gennaio non si sente mai dire: più un evento è collettivo, meno istintivamente lo si ricorda. Di una guerra mondiale, delle lancinanti sofferenze di chi si vede esplodere bombe sopra la testa, del razzismo, del revisionismo, di quella patologia così barbaricamente umana che è il pregiudizio, delle sofferenze lontane di chi non è vicino, non ci ricordiamo mai istintivamente. Bisogna rifletterci. Pensare, scrivere, cantare, leggere: tutto inutile, finché è semplicemente un giorno all’anno in cui ci ricordiamo vicendevolmente di ricordare. Troppo facile, troppo riduttivo, troppo noioso, ricordarsi — una volta ogni 365 giorni — di ricordare.
Ciò che bisognerebbe fare, e che abbiamo il dovere di fare, è ricordare davvero: ricordare perché — cara memoria, tu lo sai meglio di tutti — il ricordo è apertura degli orizzonti, scandaglio critico del passato, alla ricerca di un futuro migliore, più umano e meno erroneo. Ricordare per aprire il nostro cuore e scavare profondamente, fino al centro dell’essere, raggiungendo quanto ci rende davvero umani: perché, cara memoria, se davvero è possibile parlare di te, se davvero è possibile raffigurarti con parole e immagini, è necessario ricordare quale sia la tua natura, quanto forte sia il tuo potere, e quanto distruttiva possa essere la dimenticanza. E per farlo, cara memoria, bisogna anzitutto tacere. Raccogliersi non per un minuto, ma in giorni e giorni di silenzio. Esercitare la capacità di raccoglimento, di quiete, di intima meditazione che è così profondamente radicata nel nostro animo. Tacere di fronte alla tua grandezza, e meditare su quei pochissimi che sono riusciti davvero a de-scriverti, a raffigurarti con poche, e poetiche, parole:
“Rumori di passi echeggiano nella memoria
Giù nel passaggio che non abbiamo percorso
Verso la porta che non abbiamo mai aperto”.
Cara memoria, chissà quanto avrai giubilato dinanzi a questi versi. Al posto che ricordarsi di ricordare, con ventuno parole, T. S. Eliot, si è ricordato cosa sia, e a cosa serva, il ricordo.
Cara memoria, chissà cosa avrai pensato di Montaigne, quando scriveva — in contrasto solo apparente con ciò che sto sostenendo qui — che “[…] non c’è nulla che ci imprima così vivamente qualcosa nella memoria come il desiderio di dimenticarla.”.
Cara memoria, chissà quali risate di superiorità ti sarai fatta dello sprezzante Nietzsche, che credeva che tra te e l’orgoglio fosse sempre e comunque il secondo a prevalere.
E chissà, cara memoria, cosa penserai di me. Non sono affatto certo, cara memoria, che questa lettera ti piacerà. Perché vedi, io penso che fra te e me non ci sia differenza: ogni essere, prima di dirsi umano, dovrebbe ricordarsi di esserlo. Non sono sicuro che ti piaccia pensare, cara memoria, che senza di te non vi sia l’esistenza: dev’essere certo una bella responsabilità essere condizione di esistenza di miliardi e miliardi di viventi! Però sai, cara memoria, avere grandi responsabilità significa avere grandi poteri. Tu certo ti sarai abituata, in questi settantacinque anni, a essere ricordata. Ciò che ti chiedo io, invece, è di ricordare. Ricordati tu, cara memoria, di noi miseri umani; salvaci tu, cara memoria, dall’eterno ritorno dei nostri scioccanti errori; dai tu riparo, cara memoria, a noi esseri deboli.
Perché, cara memoria, se nella vita siamo gettati — e dunque darci ospitalità e libertà, da parte tua, è dovuto —, l’esistenza dobbiamo meritarcela. Un’esistenza senza guerre e stragi sarà forse irraggiungibile; ma ancor prima di volerla raggiungere, bisogna meritarsela. Meritarsela — anzitutto — ricordando, memori del fatto che
“Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere.”
Federico
Eccellente come sempre e stimolante Federico!
Leggendo la tua ‘lettera alla memoria’ (più volte vista la semplice densità del testo) mi sono posto domande sul tempo. Noi siamo il valore attuale di ciò che ricordiamo, quel fascio di impressioni illanguidite che ci riporta ad ora. Ma vogliamo veramente esserlo?
C’è un film di qualche anno fa – Sliding doors – in cui il regista descrive il destino di una ragazza nell’ipotesi di prendere/non prendere la metropolitana. Due vite del tutto diverse.
La memoria di quello che siamo stati ed abbiamo fatto, mi sembra una gabbia, con un lucchetto casuale. Casuale questo è il punto. Non tutto quello che è stato l’ho deciso io.
Per quanto mi riguarda, preferisco inventarmi ogni giorno, spingermi chissà dove ma tagliare la corda della memoria per andare avanti.
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