Silenzio, c’è la neve

Il cacciatore di parole

È una famosa leggenda metropolitana quella secondo cui gli eschimesi vantino un numero spropositato di termini per descrivere altrettanti tipi di neve: tale credenza parrebbe essere una conseguenza della particolare struttura delle loro lingue che consentono di rendere interi periodi con quelle che — a un ascoltatore inesperto — danno l’impressione d’essere singole e interminabili parole.
La magia delle parole eschimesi sarebbe stata uno degli argomenti che, in compagnia di Q, il mio compagno di stanza , avrei trattato in decine di occasioni diverse: anche durante le nostre consuete escursioni al di fuori dalla cittadina, infatti, non avrei perso occasione per approfittare della sua conoscenza della lingua kalaalissut per rubarvi un po’ di poesia.
Avrei indubbiamente potuto, se lo avessi voluto, obiettare che quelle parole che lui s’intratteneva esibendo come depositarie di una qualche sorta di semiologica autorevolezza erano in realtà lunghe perifrasi mascherate da parole ma sapevo anche che, nella sua lingua, questa differenza (strutturale in ogni altro idioma) non aveva spazio d’essere.
Q. si sarebbe riferito a me, in almeno due occasioni, con il termine di “cacciatore di parole”; lo faceva e tradiva, con quella definizione, un senso di biasimo. Quando gli avevo rivelato del mio tentativo di fare lo scrittore, dei miei racconti e della mia ossessione per le parole — di questo, a detta sua, si trattava –  lui aveva risposto che, proprio quest’ultima, mi avrebbe portato alla rovina: era fermamente convinto che nessuno fosse tenuto a conoscere più parole di quelle che gli servissero e che la mia disperata ricerca di parole sempre nuove, in una varietà di lingue diverse, fosse una perdita di tempo.
Era capitato, però, che in una serie di occasioni si fosse mostrato più collaborativo: aveva tentato di  spiegarmi — seppur in maniera sintetica — il funzionamento della lingua Kalaallisut, delle sue interminabili parole e della facilità con la quale potevano esserne create di nuove.  Scherzava, con una costanza che tradiva una certa malizia, sul fatto che — vista la mia passione per l’Artico, la solitudine e tutto ciò che riguardasse la neve — avrei probabilmente dovuto iniziare a studiare la sua lingua, nella quale avrei trovato tutte le parole che cercavo e che, se non fosse stato così, ne avrei potute creare di nuova con estrema facilità.
A queste provocazioni (perché di questo si trattava) rispondevo, con una malizia pari alla sua, che non ero attratto – e mai lo sarei stato – da una lingua in cui creare nuove parole fosse un qualcosa che poteva avvenire con “estrema facilità”.
Ovviamente, mentivo. 

Più volte avevo fantasticato sulla possibilità che quei luoghi remoti a cui – e ormai si stava rendendo ovvio che sarebbe stato così – avrei dedicato la vita mi portassero a scoprire una nuova parola. Rimasto senza parole davanti a certi scenari avevo avuto, più volte, l’impressione che doveva essere esistita  — in un qualche luogo, tempo o lingua lontana — una parola adatta alla loro descrizione. Tale parola doveva essere poi andata perduta, sostituita, senza che nessuno, almeno fino a quel momento, ne avesse sentito la mancanza.
Avevo fantasticato più volte, ancora, sul “riscoprire” una parola: così, ogni qualvolta che ne avevo incontrata che dava l’impressione, più o meno fondata, di essere destinata a scomparire, avevo preso l’abitudine di annotarla su di un piccolo quaderno a cui Q, con la  consueta aria di sufficienza, si era riferito come a “una raccolta di trofei di caccia”.

Naturalmente, io non la vedevo così: immaginavo la storia di ciascuna di quelle parole, le vedevo affacciarsi al mondo per la prima volta; essere utilizzate, a lungo, prima di essere dimenticate. Le vedevo sopravvivere nella memoria di pochi eletti cui era affidato l’ingrato compito della loro conservazione.
La mia visione, romantica, aveva però trovato una parziale conferma – o quella che un romantico potrebbe interpretare come tale — durante una delle esperienze feroesi: Thorgnyr, un vecchio pescatore, aveva insistito affinchè alla nipotina venisse dato il nome di Silvitni, un’antica parola, quasi dimenticata, che indica il mare quando “così calmo da sembrare uno specchio”.
Sivlitni era una parola destinata forse a scomparire e Thorgnyr questo sembrava saperlo: forse anche lui la aveva, ad un certo punto, dimenticata per poi riscoprirla davanti agli occhi azzurri della nipote.

Quanto a Q., per lui ero una causa persa, ma il rapporto di tolleranza reciproca nato in ostello si era poi evoluto in un qualche tipo di amicizia e, di tanto in tanto, ne approfittava per regalarmi qualche parola: si trattava, il più delle volte, di parole-perifrasi che descrivevano la neve: quando avevo cercato di fargli notare che la cosa dava l’impressione di essere eccessivamente stereotipata, lui si era semplicemente guardato intorno per poi indicare che, a dicembre, alle Svalbard, non ci fosse molto altro di cui parlare.
Capivo il suo punto di vista, ma ci volle del tempo prima che lui potesse dare l’impressione di capire il mio e fu durante una delle ultime camminate fuori da Longyearbyen: erano le due del pomeriggio, l’ultima luna piena dell’anno era alta nel cielo e noi volevamo vedere gli orsi polari.
Avevamo mosso i primi passi fuori dalla città, dal perimetro di normalità che circonda la cittadina – 1200 abitanti — più a nord del mondo: la neve rifletteva la luce azzurra della luna e nel silenzio avevamo l’impressione di poter sentire l’uno il respiro dell’altro.

Poi, l’euforia: una volta scomparso il profilo della città e le luci del porto, i passi si erano fatti più rapidi, volevamo andare lontano. Una volta superata la prima vallata, la luna era stata inghiottita dalle nuvole; poi, da Sud, dal mare, era arrivata la neve.
Diversa dalle bufere dei giorni precedenti, dalla neve insidiosa che fa inciampare, da quella su cui si può camminare e da ogni altro tipo di neve che Q, pazientemente, aveva descritto nei giorni precedenti: fiocchi grandi e pesanti che cadevano sempre più fitti, sempre più lenti. 

È un tipo di neve nuovo, anche per Q. Q che, forse per la prima volta, scopre la poesia: ha già visto una neve simile, ma l’insieme — le poche stelle visibili all’orizzonte lontano, l’azzurro della neve  e il silenzio irreale di un luogo ai confini del mondo — è nuovo.
È il sublime che — nella sua nuova forma, l’indescrivibile — piove — anzi: nevica — lentamente su di noi.
È l’ultimo tipo di neve: quella che porta il silenzio.

Enrico Luigi Giudici

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