No names, please

Vedete — che dire — per me era cominciata bene. In realtà, quasi per tutti noi, tutto cominciava bene: i corridoi vasti, gli incoraggiamenti continui, i colloqui gratuiti con lo psicologo aziendale. E poi la musica. Tutte le mattine, prima di partire, in magazzino, quei cinque minuti di musica che mi facevano subito sentire meglio, allegro e in forze per affrontare la giornata.
Chiedete se fosse obbligatoria? Non lo so, non credo. Comunque, nessuno se la sarebbe mai persa.
Ah, mi raccomando: quando esce l’articolo, non fate il mio nome. Il mese prossimo smetto, di sicuro, ma questo mese non posso proprio permettermelo, sono in una situazione troppo precaria.
Dunque, che stavo dicendo? Che quasi quasi mi piaceva, all’inizio.
Gli orari di lavoro non sono diversi da quelli di altri impieghi. Otto, nove, dieci ore. Il mio record è stato quattordici, ma era il periodo sotto le feste — e si sa, ci sono sempre più pacchi da consegnare sotto le feste.
E, credetemi, io sono bravo. Ho imparato in fretta. Memorizzare i percorsi per non perdere tempo, ottimizzare il tempo, minimizzare le pause.
Guidare, fermarsi, consegnare, ripartire, ripetere — e gli amici mi dicevano “è alienante”, mi dicevano “trovati qualcosa d’altro”, “sei qualificato per qualcosa di meglio”, ma il meglio non c’era, invece questo c’era, questo c’è. Badge aziendale, divisa aziendale, concerti a fine anno per tutti i dipendenti. Sì, i nostri dirigenti fanno le cose in grande.
Se mi permettete, capisco la ragione dell’inchiesta, siete giornalisti, è il vostro mestiere, ma a mio parere non è il caso di fare tante storie. A dire la verità, anche lavorare qui ha i suoi lati positivi. Prima di essere assunto non dormivo affatto, adesso mi corico e subito crollo, vedete? Ecco, l’insonnia mi è passata. Certo, mi sveglio con un certo dolore alla schiena, dovrei fare più movimento, ma via, siamo onesti, chi non dovrebbe? Lavorare in ufficio non sarebbe meglio. In realtà, voglio confessarvelo, io ero tra i carrier migliori. Sì, carrier, ci chiamano così, in inglese — e perché no, l’azienda è inglese.
Il mio trucco? L’abitudine. Ho letto da qualche parte che l’uomo si abitua a tutto, ma ci vuol tempo. Io sono uno costante, uno che non molla. Basta non distrarsi — come diceva quello, carpe diem — e cogliere quell’attimo. Ecco, bisogna cogliere l’attimo, non farselo sfuggire, altrimenti subito manchi l’obiettivo.
L’obiettivo di ieri, per esempio: centocinquanta pacchi da consegnare in orario lavorativo, c’è gente che ci è riuscita, per esempio B., per esempio F. — di nuovo, non scrivete nomi, niente nomi o mi licenziano! Loro sono la prova che riuscire è possibile, occorre solo pratica. E concentrazione a non finire. Sono andato a chiedere consigli, F. mi ha detto: devi isolarti, far sparire tutto quello che non c’entra con le tue consegne. Il presente è l’unica realtà di cui occuparti, l’unica urgenza, il resto ti distoglie — telefonate, pensieri, musica, progetti, radio, audiolibri, speranze. Ha ragione, ma io non ci riesco, non abbastanza, non fino in fondo. Ero tra i migliori, poi un giorno sono arrivato con cinque minuti di ritardo. Niente di che, mi sono detto, solo cinque minuti. Poi dieci, poi quindici. Perdevo terreno. Era come se guidassi all’indietro: più arrancavo, più indietreggiavo. E lì sono arrivati i richiami, le multe, gli straordinari obbligatori per colmare la distanza. E che altro? Molto altro, eccome, però non vale la pena parlarne, sono sicuro che troverete uno dei miei colleghi disposto a raccontarvelo. Comunque, io sono tra i fortunati, tra quelli che non si possono lamentare, non certo come S. o F. — F. non è quello di prima, sono due persone diverse. Che fine ha fatto, mi chiedete?
No, nessun incidente. In realtà, niente di particolare. Semplicemente una mattina è arrivato, ha caricato i suoi pacchi come al solito, si è seduto al suo posto di guida, stava per partire. Solo che non è partito. é rimasto lì, nel parcheggio dell’azienda, per tutta la mattina, mentre cercavano invano di convincerlo a partire. Lui si rifiutava. Si era chiuso in macchina. Hanno dovuto chiamare la polizia per convincerlo ad andarsene. Io lo capisco, il povero F., anche io se mi chiedessero, preferiresti guidare, risponderei, preferirei di no, ma l’hanno licenziato lo stesso, si capisce… Ah, come, dite che basta così?
Va bene, perfetto, anzi meglio, devo andare a dormire presto, domani ho il turno la mattina presto. E mi raccomando mi raccomando io non vi ho detto niente. Sì, il mese prossimo smetto. Se posso. Sì, smetto.
Francesca

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