Richiami dal futuro

L’arte dell’attesa e l’attesa dell’arte

“L’attesa è il futuro che si presenta a mani vuote.” — Michelangelo

Lo sbuffo, dalle sue ampie narici. Lo scalpito, frutto dei suoi zoccoli su quella terra incerta. Un nitrito, solitario, a squarciare una notte di pioggia fitta e malinconica. Angosciosamente poggiato sul suo dorso, gli sfioro il ventre con la punta dei miei piedi, infradiciati e tremanti. Piano, con calma, porto avanti la schiena. Con ancora maggior cura, mi protraggo avanti nel tempo e nello spazio, fondendomi con quell’aria pungente che contribuiva a far rizzare la mia rara peluria infreddolita. Con un movimento lentissimo eppure istantaneo, porto il mio torace sul suo dorso, distendendolo, fino a unire il mio volto al suo crine. Ora, stando attentissimo a non eccedere nella vigoria dei movimenti, porgo il mio orecchio destro su di lui; tocco il crine, non sento granché il respiro, così — col timore reverenziale che avrebbe un cattolico di fronte alla Sacra Sindone — gli avvolgo il costato e il pingue ventre con le mie mani, scomposte, alla ricerca di un senso, e ora vicine ai quei tremuli microrganismi ch’erano i piedi. Chiudo gli occhi e, per un solo attimo, in quella notte buia e tempestosa, vedo la luce. Un tripudio di infinito, abbacinante nella sua bianchezza, si fa latore della divinità e — senza che possa porre ostacoli — mi costringe a una scioccante, e immota, commozione. In quell’unico momento, eccessivo e riduttivo a un tempo, si proiettano, nell’etereo nulla, una sterminata serie di visioni. Sangue che schizza e rimbalza, tra coltelli e vene; dita bruciate, erose da accendini fuori dal tempo; occhi vitrei e insignificanti, scatenati da lacrime torbide; cuori infranti, avvinti da quell’attrattiva irresistibile che tutti chiamano “dolore”.
L’immagine, fortissima, non supera la proiezione illanguidita; la significazione, isolata, non raggiunge l’anima; la metafora, incompresa, non si riflette nello specchio della vita.
Un attimo dopo, le visioni vengono risucchiate e quella divina apparenza, sul quale queste poggiavano, si dissolve in quella fittizia e crudele illusorietà che tutti dicono essere la realtà.
Mi ritrovo, di nuovo, unito a quel poderoso e inane essere. Con la stessa calma del viaggio d’andata, mi risollevo, ritraendomi. Torno a poggiare le mani sulle mie ginocchia, a non confondere il mio crine con il suo, e a fissare l’orizzonte. D’improvviso, mi rendo conto di essermi perso. Da fermo, mi sono perso. Mi guardo attorno, e, anche se sono certo di non essermi mosso, non mi ritrovo. Tutto, vicino a me, brucia. Deserti alberi consumano le loro radici e si disfano, impotenti, sotto i colpi del violento rogo. Teneri scoiattoli si rincorrono, cercando uno scampo che non troveranno. Ispidi castori e mollicce blatte rinunciano ancor prima di provare, in attesa di una morte ormai certa. Serpenti ed elefanti descrivono un ampio cerchio, come impazziti, attorno a lucertole così celeri da sembrare aliene.
Circondato ma mai toccato dal fuoco, rimango fermo, e studio l’orizzonte. Le palpebre calano, l’animale è stanco, e così ci addormentiamo. Al risveglio, la neve. Lui, lì sotto, infreddolito; io, lassù, a pregare che quel gelo passasse.
Ricordo che, nella notte, pensai a quel che diceva quel tizio che mamma nominava sempre: “Gli uomini non vivono, ma sono sempre in attesa di vivere: rimandano tutto al futuro”, sentenziava. Rammentai, subito dopo, una frase che mi sembrava tanto simile e che il mio insegnante di filosofia, quando ancora sedevo inutilmente tra i banchi di scuola, ripeteva compulsivamente: “Noi non cerchiamo mai le cose, ma la ricerca delle cose; non viviamo mai nel presente, ma in attesa del futuro”. E, in un momento di parziale illuminazione, ricordai anche che chi lo diceva era lo stesso del ramo spezzato, della vanità dei sensi, e della miseria dell’uomo paragonata alla grandezza di Dio. Mandai al Diavolo — lui sì che esiste di sicuro — tutte quelle sciocchezze e mi rimisi a carezzare il mio splendido animale.
Io e lui, contemporaneamente, guardammo lontano. Vedemmo, all’orizzonte, uno splendido specchio d’acqua, nel quale giacevano corpi violentati, volti slabbrati, e unghie spezzate. Uno stuolo di ragazze si stendevano, dionisiache, su quei cadaveri, e improvvisavano estenuanti ma sensualissimi balli, mentre io e Bucefalo osservavamo, scioccati, quell’incomprensibile spettacolo. Gli sussurrai all’orecchio il nome del mio unico Amore, intimandogli di non dirlo a nessuno, e lui si manifestò, insieme alla neve, in un nitrito d’assenso.
Di colpo, si mosse. Annunciò i suoi talloni all’aria, facendo vibrare le ginocchia al vento. Nitrì di nuovo, si voltò verso di me, chiese consenso e, senza aspettarlo, si gettò nella sterpaglia, al galoppo.
Quella notte, ricordo, vidi di tutto. Vidi cosa sarebbe successo nella mia vita e in quella altrui, capii cosa ne sarebbe stato di me e di lei e raggiunsi finalmente la pacificazione. Contemporaneamente, il sangue smise di scendere mentre il vomito interruppe il suo fluire. Le lacrime e le ferite si congiunsero, eterne cicatrici di un presente senza passato. Corpo e mente trovarono la loro dimora, figlie ingrate di una natura soprannaturale.

Poco dopo, una fortissima fitta al cuore. Sgrano gli occhi e vedo camera mia. Provo a urlare e chiedere aiuto, ma sembro avere finito l’aria a disposizione. Mi dimeno ancora qualche istante, e stramazzo, una volta per tutte, a terra.

Quando — ore dopo — apro gli occhi, tutto attorno a me è oro e porpora. Alla mia destra, il  vostro mondo; alla mia sinistra, il mio.
Sopra di me, Michelangelo sussurra:

“L’attesa è il futuro che si presenta a mani vuote.”

Federico

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