Piccolezze e canoni all’ombra di Dio
“La prova principale della vera grandezza di un uomo consiste nella percezione della propria piccolezza.” — Arthur Conan Doyle
08/03/2020. Ore 10:43.
Rileggo ciò che ho scritto. Sistemo qualche virgola, ricontrollo nuovamente, poi alzo gli occhi. Davanti a me, una vetrata. Dietro di me, il passato. Sotto i miei occhi indecisi, il pollice prende l’iniziativa e, alle 10:45, invia quel messaggio.
Una lunga espirazione — senza alcun bisogno di inspirare, quasi come se a essere troppa fosse l’aria già presente in me — mi scuote. Vibro, insieme al mio corpo, e mi volto all’indietro. Il passato scende le scale, mi abbraccia in silenzio, e fa risuonare tutta la sua eco nelle tempie, raccoglitrici indomite di pugni senza fine.
Io e lei — il passato è donna —, stancamente, ci avviamo verso l’uscita di quel lungo e claustrofobico cunicolo che è l’esistenza. Sento la sua voce, e ho anche la sensazione di starle rispondendo. La realtà, però, non è lì.
La realtà volteggia alle nostre spalle, con occhi di cerbiatta e ferocia di tigre. La realtà è sfrontata, ostenta il suo strapotere, esibisce il suo dominio. La realtà schiaccia e brutalizza, torturante e divisiva.
Sei ore dopo — tanto è dovuto passare perché avessi il coraggio di prendere atto della realtà — sto rileggendo, di nuovo e in solitaria, quel messaggio. Messaggio letto, ma soprattutto messaggio privo di risposta. Privo di orientamento, privo di direzione, privo di vita. Sono le 16:49, e ho gli occhi pieni di lacrime. Apro la finestra, penso a ciò che vorrei fare, e la richiudo. Del tutto snaturato, vivo solo per eccessivo altruismo, afferro il cranio senza alcuna forza, e lo faccio rimbalzare contro l’aria; quella lo colpisce. Quando rialzo gli occhi, sto piangendo e perdendo sangue — dal naso, credo. Mi trascino fino al bagno, faccio scorrere l’acqua, inumidisco i polsi. Alzo gli occhi, sempre più gonfi, sempre più grevi. Studio lo specchio; mi chiedo perché quell’inquietante riflesso non si sia ancora sparato, perché non abbia lasciato spazio a me.
Quel pensiero, così violento e così vero, mi dilania. Cado sulle ginocchia, pensando al mio dolore e soprattutto a quello degli altri.
Penso a quel mondo percosso, ritrovatosi piccolo e impotente di fronte alla più congenita di tutte le fobie — la morte.
Penso a quei volgari e riluttanti umanoidi, abituati a disporre a proprio piacimento tanto della natura quanto delle debolezze altrui, e ora pronti a gridare il proprio allarmismo, speranzosi di trarre giovamento dall’aiuto d’altri — quel medesimo aiuto, quella stessa fratellanza tra uomini, che loro schernivano con infastidente superiorità.
Penso a quella grande anima vissuta 29 anni, sbranata dalle fiamme omicide, e a quella sentenza sublime (generante cioè, per dirla con Kant, piacere negativo) e immortale che mise al mondo — secondo Etty Hillesum, infatti, “se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile”.
Penso, fremo, e non mi fermo. Scaglio i miei occhi contro l’orologio — vedo “16:59”.
Sette minuti dopo, con I love you, Billie Eilish mi ricorda quale sia l’unico, altro, gigantesco problema dell’umanità: oltre alla morte, l’amore. La mia mente, come se fossero due tratti della stessa linea, li concepisce uniti, e ripensa — in totale autonomia — a quei tre versi finali di un dolente Leopardi, che parla con la morte dicendosi “solo aspettar sereno | quel dì ch’io pieghi addormentato il volto | nel tuo virgineo seno.”
Sette ore dopo, l’8 marzo è passato da 6 minuti. Nell’aria, pretende spazio il male. Fluttua deciso — “veloce come una farfalla, pungente come un’ape”, diceva qualcuno — e scatena lampi di lugubre iridescenza contro la mia mente sempre più obnubilata. Mi schiaffeggia, gridandomi tutti gli epiteti irricevibili che mi sono stati rivolti nel passato, e mi riempie — di nuovo, instancabilmente — gli occhi di lacrime. Per calmarmi, ripenso alla massima di Einstein, secondo cui “i grandi spiriti hanno sempre trovato la violenta opposizione delle menti mediocri”. Ed è lì, proprio in quell’istante, che percepisco la mia sconfitta. Percepisco di non essere un grande spirito, ma una mente mediocre. Sento librarsi — di colpo, in un orizzonte che è eterna immobilità — tutte le sconfitte e tutte le vittorie. Soppeso, con allucinante analiticità, tanto il passato quanto il futuro.
E lì, in quell’attimo, con vigoria mascolina — il presente è uomo — e dolcezza eterea, una specie di scossa mi attraversa, spogliandomi e rivestendomi. Ho la netta sensazione di star perdendo colpi, di essere parte di un disegno troppo più grande, incontenibile e irrefrenabile nel suo velocissimo progredire.
Ripenso, per brevi istanti, a quel Pascal che a partire dalla sua miseria ha trovato non solo sé, ma anche Dio. Mi chiedo se possa essere così anche per me, o se non sia altro che una straziante condanna.
Stancato dalla mia impotenza, strascico i piedi e il futile corpo fino a camera mia. Sono le 00:17 del 9 marzo 2020.
Estraggo un libro piccolo, adiacente al gigantesco volume che raccoglie tutti i casi di Sherlock Holmes. Apro una pagina tra le poche, certo di trovare una perla tra le tante. E così, puntualmente, è. Perla tersa e pura, priva di errori e piena di lungimiranza. Splendente tanto oggi quanto domani — il futuro non si sa cosa sia, ma di certo brilla, in tutti i sensi —, esaltata da un libriccino ombroso e all’apparenza insignificante, quella frase risuona ancora, eternamente rilucente in un mondo sempre più scuro:
“La prova principale della vera grandezza di un uomo consiste nella percezione della propria piccolezza.”
Federico
Certo la fragilità è in noi. Siamo noi. Ma è proprio vero che la fragilità implica rassegnazione? E’ proprio vero che siamo così piccoli ed inerti? Non concordo con la tua conclusione!
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