Caro Dio.
Caro Dio, sì, perché questa volta non parlerò di anoressia, di bulimia, o di disturbi alimentari in genere — ne ho già parlato abbastanza.
Dicevo, dunque, Caro Dio.
Parlo a Dio, perché a volte non esiste ragione al dolore. È così, e basta. Succede.
Succede, come quando mi sono ammalata.
Succede, come quando papà ha perso il lavoro e noi, di conseguenza, abbiamo dovuto stringere la cinghia.
Succede, quando mamma ha perso il bambino che portava in grembo.
Succede, quando mi ritrovo chiusa in camera a notte fonda con le lacrime che mi rigano il viso, a brancolare nel buio che dilaga tanto dentro, quanto fuori.
E a brancolare nel buio nero dell’impotenza io, ormai, ci ho fatto l’abitudine. E lì, non esiste nulla, e nessuno, da incolpare.
Allora oggi questa lettera, che lettera non è più, parlerà di briciole — o di oblio, se preferite.
E non mi rivolgerò a chi leggerà, ma a Dio, quel Dio che — se esiste — tanto mi ha tolto quanto mi ha dato.
La spada di Damocle di chi ama la vita a tal punto da non saperci convivere.
La maledizione del pensiero compiuto, amare tanto la Vita da lasciarsi travolgere come sabbia tra le onde.
È forse lì, a un millimetro dalla superficie e uno dall’affogare che si rimane incastrati. Intrappolati tra il desiderio di occupare spazio, ricavarsi un angolino di serenità in una quotidianità frenetica e intrattenibile e il bramare silenzio d’eterno.
“Accettarsi, accettati, devi accettarti per come sei!” Ho sentito queste parole infinite volte, a volte serie, altre bagnate da lacrime amare.
E amare è amaro come il fiele, a volte, soprattutto con la consapevolezza che tutto ciò che siamo non è altro che vento che si disperderà tra risate di bambini.
Caro Dio, siamo tutti dispersi in una sconfinata stanza buia con il disperato bisogno di aggrapparci a qualcosa per sentirci al sicuro. Le senti le unghie che scalfiscono i calcinacci arrugginiti?
Se c’è una cosa che spesso mi ha tenuta aggrappata in qualche modo alla vita è la certezza di un pavimento.
Esiste sempre, un pavimento.
E tre anni dopo essermi ammalata per la prima volta, forse è proprio la certezza di un pavimento che mi ha fatto sognare ancora altri cieli, altri universi, altre nuvole bagnate di poesia.
È proprio quel pavimento che mi ha fatto desiderare altra vita. E non un’altra vita, la mia. Così com’è.
Spesso in pochi metri si concentra tutta la vita che illumina il vuoto che circonda. Perché un vuoto, attorno a noi, ci sarà sempre. Perché se c’è un trucco che svela il gioco, è che quando non si trova nulla a cui aggrapparsi, l’unica cosa sicura da fare è sdraiarsi sul pavimento.
E io, su quel pavimento, ci sono rimasta sdraiata per mesi, raggomitolata su me stessa, spaventata e atterrita. E chilo dopo chilo, diventavo sempre più polvere che, prima o poi, sarebbe stata spazzata via; eppure non mi importava.
E se questo Dio, la cui storia poi si intreccerà con questa specie di destino malevolo e selvaggio che ci sbeffeggia, davvero esiste, che si faccia così immagine di Luce.
In quanto umani, siamo indissolubilmente legati dall’intercapedine che ci scardina il petto. La bellezza dello sfregio che si apre tra le costole e mozza il fiato.
Ciò che ho imparato, e da chi l’ho fatto si ritroverà immerso, con immenso amore, tra queste righe, è che passiamo la vita in bilico su una corda cullata dal vento, senza sapere mai da che parte si cadrà.
Da una parte, ogni ferita dell’anima si assomiglia ed è totalmente a sé. Ma se il buio è indistinguibile, ogni luce ha il proprio nimbo.
Ma la Luce esiste soltanto per chi desidera vederla, come un granello di sabbia che è minuscolo solo se lo guardi da lontano.
E io, quella Luce, l’ho vista soltanto il giorno in cui mi sono voltata verso il cielo e ho visto le nuvole. Così mi sono accorta che quel pavimento su cui mi ero riparata per così tanto tempo non era altro che un pavimento d’erba fresca su cui correre, e sognare.
Così la partita più importante della carriera, noi, la disputiamo ogni giorno, in una terra martoriata da crateri di mine scoppiate e aloni di lacrime amare sulla terra brulla.
Eppure, più mi guardo attorno, più scopro che che per ogni mina scoppiata c’è posto per la nascita di una stella, e che ogni lacrima amara sarà nutrimento per una nuova betulla.
Caro Dio, io non lo so che piani tu abbia. Nessuno lo sa, e così è giusto che sia. Ma dicono che ognuno trovi Dio in ciò che lo circonda.
Io ti ho visto. O meglio, ti ho riconosciuto, quando attorno trovavo solo quel buio graffiante che mi avvelenava. Ti ho trovato in una mano tesa, una lacrima furtiva sul cuscino di un ospedale, in una risata, in un “passerà” sussurrato, in una finestra chiusa che però, prima o poi, si aprirà.
Raccogliere i cocci di ciò che ero per ricostruire sulle macerie di una città in fiamme.
L’Anoressia nasce dal desiderio di scomparire, di restare polvere sul pavimento della Vita. Ci sono quasi riuscita — in termini di chili, si intende — anni fa. Quel periodo mi spaventa ancora.
Conosco bene quel dolore dilaniante, ma non siamo altro che briciole d’eterno. Alcune volte, basterebbe fidarsi di questa sottile, intelligibile patina d’amore che spesso ci guida, e ancora più spesso, ci protegge.
Per quanto spaventi, alzarsi, correre, scoprire che se ogni sensazione è mediata da ciò che crediamo di conoscere, noi abbiamo il potere di trasformare il pavimento che proteggeva in un tappeto d’erba su cui giocare e fare l’Amore.
Lasciare che la forza intrinseca d’Amore che c’è, e che spinge inesorabilmente verso quel vento d’Eterno, ci guidi, ci sorregga, e ci stringa la mano quando sentiamo di cadere.
Innamorarsi della Vita, che è la Potenza più grande che esista, e giocarsi con fierezza il posto riservato a noi nel firmamento delle stelle.
Oggi, 15 Marzo, nella giornata mondiale contro i DCA, i disturbi alimentari.
Gaia