La “gloriosa mors”
Era un pomeriggio torrido e le cicale cantavano forte. Un vecchio era seduto su una panca di marmo grigio e sfiorava l’erba alta che vi cresceva intorno. Avrebbe abbandonato tutto questo? Di sua libera scelta? Se avesse dovuto andarsene prima del tempo, se ne sarebbe andato di sua stessa mano. Aveva deciso da sé la sua vita e ora avrebbe deciso anche la sua morte. Eppure, tutto il tempo passato a riflettere su di essa non lo aveva reso immune dalla paura di incontrarla faccia a faccia. Meditava, e pensava che ormai la sua vita era come il sole d’inverno: senza più alcun calore, ma dotata di una pallida bellezza. Ci furono tempi felici e li rammentava nell’imperfetto silenzio del suo giardino popolato da mille creature. Era nato in Spagna, tanti anni prima, a Cordova. Lì era iniziato il suo viaggio e ora, a Roma, in una terra lontana, stava per compiersi.
‘Mi è toccata in sorte una lunga vita, ma soprattutto io l’ho ben goduta’ pensò. Questo era l’importante: vivere bene, non vivere a lungo; perché mentre la lunghezza della vita dipende solo dal Fato, la sua qualità dipende dagli uomini stessi. L’unico potere che possediamo è quello di scegliere come spendere il poco tempo che abbiamo. Ma poi, è davvero poco il tempo che trascorriamo calpestando la terra? Forse ci sembra poco perché lo usiamo male. Sprechiamo giornate intere a far nulla, a oziare, bere, passeggiare…quando invece potremmo scoprire il segreto della saggezza, della vera scienza, la chiave della virtù. Molti di noi camminano per le strade, ma sono già morti da tempo e altri muoiono proprio mentre avevano appena cominciato a vivere.
La morte è molto odiata, molto temuta e ne viene rispettata la potenza e l’autorità assoluta; ma è davvero lei che ci sottrae per sempre il respiro? In realtà il momento in cui sopraggiunge è solo l’ultima delle morti, che ogni minuto ci hanno ucciso pian piano. La clessidra non finisce per colpa dell’ultimo granello che cade, ma per tutti quelli che sono caduti prima di lui.
Tutto questo invadeva i suoi pensieri prepotentemente. Perché doveva fare riflessioni? Non avrebbe potuto abbandonarsi ai dolci ricordi come tutti i vecchi della sua età? Il carattere non cambia mai e ora ne aveva una riconferma.
Il vento fece frusciare le foglie del platano al centro del giardino, che ormai era lì da molti anni e si rimembrò il primo giorno in cui incontrò il suo Destino: si chiamava Nerone, aveva gli occhi piccoli e i capelli scuri, una mente sveglia e le spalle già cariche delle aspettative del suo precettore. Si ricordò dei molti anni passati con lui, condividendo col giovane alunno i suoi ideali e la sua nuova filosofia, tutta originale. Era così convinto e sicuro del potere che l’educazione aveva su un fanciullo e sul potere! Così quando Nerone divenne imperatore non poté che essere estremamente felice: il suo sogno si sarebbe realizzato. Un governante illuminato e degno avrebbe guidato l’Urbe, la Città.
La felicità sbiadita di quei momenti lasciò improvvisamente il posto ad un acuto dolore: era il suo cuore che si spezzava di nuovo. Tutto era andato in fumo. Il suo Destino si era compiuto: aveva fallito. Dopo tutti gli imperatori inetti e sciocchi che lo avevano sempre ostacolato aveva lasciato il posto ad un uomo colto, a un artista…ma sicuramente non a un politico, né a un amico.
Era un uomo molto pratico e non si era mai lasciato andare a tanti sentimentalismi, eppure soffrì. Soffrì molto per questa grande delusione; non poteva tradire sé stesso. Si allontanò, quindi, dalla sua carriera in città e dal suo antico alunno dimentico del suo affetto. Poté per anni dedicarsi alla sua saggezza, all‘otium, allo studio.
Quanto aveva scritto e quanto aveva letto, quanto aveva imparato, dalla vita e dai libri! I libri li aveva scelti sempre con grande cura, così come sceglieva le persone e le esperienze: non è bene ingozzarsi di qualsiasi cosa a tavola, ma si devono scegliere poche e gustose pietanze, altrimenti ecco il mal di stomaco.
Era stato in Corsica, ai tempi di Claudio, in Spagna, a Roma, in Egitto…Alla fine, stava bene ovunque si trovasse. Era convinto che chi sentisse il costante bisogno di spostarsi aveva l’animo in subbuglio, agitato da moti oscuri e sconosciuti, che muovevano il corpo assieme alla mente.
Un altro fruscio lo riportò alla realtà. Presto sarebbe stata l’ora. Era un saggio, doveva raggiungere l’apatheia, l’imperturbabilità. La vita, così come il denaro e ogni bene, è qualcosa che la sorte ci da in prestito: bisogna essere pronti a restituirglielo, e lui era deciso a farlo. Non poteva sottrarsi: dopo la congiura dei Pisoni ormai Nerone era deciso a liberarsi di lui. Non aveva nemmeno partecipato, ne era solo a conoscenza; ma questa forse era comunque una responsabilità troppo grande.
Arrivò il giorno. Sua moglie Paolina piangeva, voleva seguirlo nella morte come aveva fatto in vita. Lui la fece portare via, in un’altra stanza, per non farle compiere l’estremo gesto.
Si sedette. C’era il suo medico fidato accanto a lui, che da sempre aveva curato i suoi polmoni malati. Era circondato da amici tristi e la cosa lo rese felice. Protese i polsi deboli e la mano tremante del medico li recise con precisione. Il sangue sgorgava ma non era abbastanza e così si fece tagliare le vene delle gambe e delle ginocchia. Si sentiva più debole, ma non era abbastanza. Intanto intorno a lui fluivano lacrime e andavano asciugate. Parlò ai suoi discepoli, lasciando loro la sua ultima eredità, la più preziosa: il suo esempio di vita e di morte, di coerenza e devozione.
L’ultimo respiro non giungeva e decise di imitare i greci: si fece portare della cicuta e bevve. Nemmeno il veleno ebbe effetto. Questa vita non finiva, non lo voleva lasciare. Non immaginava avrebbe sofferto tanto. Dolore, paura e confusione lo invadevano, ma la morte non voleva venire ad incontrarlo.
Decise di spostarsi nella stanza del bagno, dove l’acqua bollente e i vapori avrebbero forse accelerato questo estremo strazio. Si immerse, spargendo il suo sangue sui suoi compagni e offrendolo a Giove. Era lui il capro sacrificale, era sé stesso che offriva agli dei. Restituiva il suo Fato perfettamente compiuto, così come era stato scritto.
Il respiro divenne pesante e finalmente la vista si annebbiò. Stava arrivando! L’avrebbe vista, dopo 60 anni di attesa. Abbassò gli occhi e guardò l’acqua torbida, rossastra, tagliata dalle sue dita raggrinzite.
Lucio Anneo Seneca, in una calda giornata del 65 a.C., chiuse gli occhi e non li aprì mai più.
Laura