Jane Austen, 1815
Jane Austen si presenta immediatamente all’immaginazione collettiva con una sua rappresentazione molto diffusa che la ritrae in una classica posa e con addosso un abito modesto tipico del suo secolo, il Settecento; risulta abbastanza difficile riuscire a identificare quell’immagine tanto convenzionale — nonché priva di una particolare espressività — con quella scrittrice che dedicò la vita a scrivere di donne in una società nella quale la descrizione di quelle poche, prese in considerazione nei romanzi, era quasi sempre frutto dell’immaginazione maschile.
Nella società inglese dell’epoca era ritenuto conveniente che, se mai una donna si dilettasse nello scrivere — anziché nel dipingere o nel suonare musica come più le si confaceva — le sue creazioni avrebbero sempre dovuto avere un carattere strettamente femminile, il che naturalmente implicava la loro necessaria insignificanza e limitatezza ai pochi argomenti superficiali che potevano interessare solo a una donna. Le opere della Austen seppero mimetizzarsi molto bene poiché decise di attenersi alle regole del decoro, giocando con uno stile femminile leggero, e, ancor di più, stando alla larga dai temi considerati maschili e quindi di un certo spessore. Il radicato senso pratico dell’autrice, trapelante da ogni romanzo, si rifletteva anche nel sapiente uso delle proprie doti, e così con modestia e ironia si avventurava nell’analisi psicologica e nei modi di relazionarsi delle persone e soprattutto delle donne in un mondo a loro fondamentalmente ostile. Senza elevate pretese e ben lontana dall’essere mossa da uno spirito rivoluzionario — d’altra parte non si può pretendere che il femminismo come lo conosciamo noi oggi potesse essere un ideale concepibile tre secoli fa — l’autrice riuscì però a dare finalmente voce al punto di vista femminile facendo apparire sotto tutt’altra luce, pur senza mai criticare apertamente, le convenzioni più profondamente radicate nella società settecentesca.
Anche se fra le sue eroine nessuna rivendica mai alcuna necessità di cambiamento nella struttura sociale in cui si trova incastrata, allo stesso tempo non ne segue mai ciecamente i dettami: in tutti i romanzi le protagoniste si struggono nel cercare un modo di essere fedeli a se stesse e ai propri valori trovandone sempre infine il modo, pur rimanendo ancorate alle condizioni della realtà. Il personaggio di Emma, protagonista dell’omonima opera, è uno dei più significativi, sotto quest’aspetto, insieme a quello di Elizabeth in Orgoglio e Pregiudizio, ma mentre la seconda è ben più nota per il maggior successo del romanzo che abita, la prima merita forse più attenzione per gli aspetti non meno interessanti che rappresenta. Emma Woodhouse è una giovane donna che vive ancora con il padre vedovo, uomo insofferente a molte cose ma pieno di amore e stima per la figlia, che infatti cerca di trattenere dall’idea di un futuro matrimonio pur di non separarsene; lei stessa fra le proprie necessità non pone affatto quella — ritenuta naturale per una qualsiasi signorina della sua condizione — di un matrimonio di convenienza e sostiene invece con ferma volontà di non avere intenzione di rinunciare alla propria indipendenza, potendosi permettere una vita di agio anche da nubile. Emma parla apertamente della propria scelta in vari passaggi del libro — in particolare, quando la sua amica Harriet, così semplice da lasciarsi guidare ciecamente dalle doti di arguzia e intelligenza (ben superiori di Emma) persino nelle questioni di cuore, le chiede stupita come sia possibile che lei non si sia ancora sposata. Emma, con estrema sicurezza, lascia attonita l’amica, rispondendo che finché non ci saranno da parte sua sentimenti profondi di amore — pur essendo lungi dal credere di poterli mai provare — riterrà del tutto inutile il matrimonio; in questo passaggio del romanzo la protagonista parla risoluta come avrebbe potuto fare solo un uomo, sicura della propria capacità di giudizio. Nonostante si tratti di un personaggio brillante, essendo dotata di qualità che la rendono apprezzata e stimata da tutta la sua cerchia, è evidente la sua tendenza all’arroganza nel pensare di poter controllare tutto e quello di autocompiacersi — che essendo donna risulta ancor più grave — e la Austen non omette il giudizio sociale che è naturale si riversi su di lei. Emma stessa si rende conto dei propri difetti una volta sperimentati gli errori di giudizio che ne derivano; il suo personaggio si evolve nel corso del racconto con il graduale smussamento degli angoli del suo carattere, e per questo non si può fare a meno di notare che alla fine del romanzo i ruoli sociali sono riportati, per così dire, al loro posto. Eppure si tratta di una lettura parziale, perché anche se il romanzo non sfora affatto dal confine di accettabilità imposto dalla morale, il personaggio di Emma è del tutto anticonvenzionale per l’epoca: pur ritrovandosi infine a mettere da parte quelle presunzioni che prima seguiva con assoluta certezza, non si discosta mai dalle necessità interiori che le sono dettate dall’intuito — il fatto di sentirsi una persona completa e sostenuta dalle proprie risorse anziché bisognosa di un uomo che la sorregga è la vera forza che la guiderà per tutto il romanzo, dall’inizio alla fine.
Per molti uomini, le opere della Austen sono limitate perché fin troppo femminili, sicuramente ostacolate dalle ambientazioni domestiche che limitano l’azione e popolati di personaggi maschili poco interessanti. Per me è curioso come si parli di limitazioni rispetto a un romanzo come Emma per il fatto che per una donna sia probabilmente più facile seguire con interesse quello che pensa, oltre ai sentimenti che prova la signorina Woodhouse; dopotutto i dilemmi femminili non sono in qualche modo universali tanto quanto quelli maschili che sono sempre stati raccontati dal resto della letteratura? Jane Austen è stata, dunque, senza dubbio pioniera nella convinzione che ci fosse qualcosa di interessante da dire — a un livello più profondo — anche sulla vita delle donne.
Valeria Delzotti