Caro Ibrahima, innanzitutto complimenti per essere risultato tra i vincitori del nostro Concorso. Come ho cercato di raccontare nel mio editoriale di maggio, la tua è una storia molto particolare. Lì, la raccontavo in breve; ora, è il momento di approfondire. Vuoi raccontare ai nostri lettori qual è stato il percorso che ti ha condotto sino a qui?

Innanzitutto ti voglio ringraziare di avermi dato la possibilità di raccontare il percorso che mi ha condotto fino a qui in Italia. Inizio dicendo che sono nato il 5 febbraio 1997 a Macenta, in Guinea. Prima di rispondere alla tua domanda, vorrei parlare di quale Guinea sto parlando, e cioè della Guinea Conakry. La Guinea è sulla costa Atlantica dell’Africa Occidentale, e confina con Guinea-Bissau, Senegal, Mali, Costa d’Avorio, Liberia. La Guinea Conakry è una terra dal clima molto duro: piove 6 mesi l’anno, c’è il sole per il restante periodo. È una terra ricchissima di diamanti, oro, ferro e uranio. In Guinea, gli animali vivono, gli uomini muoiono. I guineani parlano una lingua che odiano, che definiscono imperialista. Nel 2010, con le presidenziali, mio padre viene arrestato; la mia famiglia, bastonata; io, a 13 anni, avevo perso un occhio. Sono scappato nel 2012, ho raggiunto il Mali dove ho passato tre mesi. Dopo il Mali, sono andato fino in Libia, dove sono stato una settimana perché il diesel costa ancora più del Mali e tutti dormono fuori a causa del caldo. Poi ho raggiunto il Niger, di lì l’Algeria, dove mi sono trattenuto un anno e qualche mese, diventando pastore. Dopo l’Algeria, la Libia: un deserto infinito. Quando mi muovo vedo buio, spazi neri, ragazzi uccisi per strada. Chiedo dove sia l’Italia.
(Si dice che la Terra sia sferica, ma io non ci credo: la Terra è uno spazio infinito, in cui si cammina.) Quando sono arrivato in Sicilia, le donne hanno iniziato a cantare e gli uomini ad applaudire. Il sindaco, dopo lo sbarco, ci ha offerto una brioche al cioccolato — una brioche che aveva il sapore della libertà. Ci sono stati presi vestiti, impronte digitali; di lì, sono stato accolto dalla comunità di Masone, che per me è il paradiso. A Masone, ho imparato a dormire come gli italiani: su materassi comodi, con una casa e una residenza che mi protegge dalla pioggia e dal freddo.
Quello dell’occhio è stato un evento davvero forte, che risulta davvero di grande impatto. Dietro al titolo della tua poesia — Brandelli Blu Mare — si cela forse anche questa volontà di raffigurare la cecità? E, comunque sia, cosa ha significato per te poter recuperare la vista?
Caro Federico, ti dico una cosa: perdere un occhio è stato un evento di impatto totale. Oggi, grazie a Dio, sto diventando una persona che ha il desiderio di raccontare la sua storia, ma non è mai stato facile per me il farlo. Dietro questo titolo della mia poesia, quindi, quel che ricordo è il dolore: il dolore di non sapere dove sia mio padre, il dolore di mia madre che non può difendersi, il dolore di sapere che quanto avviene non ha senso, il dolore di una freccia che si infuoca nel mio occhio sinistro. Sono diventato uomo nel silenzio ammutolito dei miei fratelli: ho tredici anni, e un occhio di meno; ho tredici anni, un mese al buio — essere cieco a tredici anni, in uno Stato in cui bisogna correre, è troppo dura. Si può piangere senza occhi: sono lacrime di sangue. Apro l’occhio destro dopo un mese di buio, temo di non vedere nulla, temo di essere un peso per la mia famiglia, non mi sento più uomo: non sarò mai un uomo. Ora, invece, cosa sono? Questo percorso è molto difficile da raccontare per me, e allora — per rispondere alla tua seconda domanda — recuperare la vista è stata libertà totale, perché la libertà di una persona consiste nel rispetto della sua dignità di essere umano: una persona è libera quando vengono rispettate le sue idee e i suoi desideri. Avere la vista, avere un occhio nuovo, è stato un tornare a quella libertà che l’articolo 13 della Costituzione definisce “inviolabile”. Sono stato felice e ringrazio Dio e ringrazio tutta l’Italia di avermi dato questa opportunità: ora mi sento uomo.
Brandelli Blu Mare, peraltro, è anche titolo di un romanzo di Rosa Johanna Pintus — una delle tante testimonianze sulla tua vita, forse la più personale. Cosa volevi trasmettere con quell’opera e perché pensi che potrebbe interessare a una persona che già non ti conosce?

Brandelli Blu Mare è una prosa poetica in cui si intrecciano più voci: periferie urbane e periferie del mondo, in cui ci si interroga sulle possibili soluzioni dei mali del mondo contemporaneo e nella vita delle persone. Dentro il romanzo scritto dalla mia Docente di Lettere, Rosa Johanna Pintus, ci sono testimonianze della mia vita e di alcune persone trovate sulla mia strada. Nel libro, insomma, ognuno ha la sua storia: abbiamo rparlato della mia e come dicevo anche di altre incontrate durante il mio viaggio.
Io sono una persona semplice, voglio vivere una vita semplice, senza stress e preoccupazioni. Volevo solo essere felice, ecco tutto. Io ho sognato di raccontare la mia storia — per fortuna l’ho già fatto — affinché tutti potessero conoscere me stesso, e se alcuni ora volessero approfittarsi di me, beh, non mi interesserebbe alcunché: io sto cercando solo di andare avanti, di perseguire la mia strada. Se invece l’interesse fosse spontaneo, ripeto che il libro vuole raccontare i mali miei e, attraverso questa storia, quelli del mondo contemporaneo; personalmente, sono anche fortunato: posso già dire di aver realizzato il mio sogno più grande!
Valley’s Got Talent, associazione con cui collaboriamo ormai da molto tempo, è un gruppo con il quale hai condiviso molte attività. Cosa rappresenta per te quel gruppo e in che modo cerchi di ringraziarli, nel quotidiano, per poterli aiutare quanto loro hanno fatto con te?

Questa domanda, Federico, mi dà l’opportunità di parlare di un gruppo che, come dicevi, è risultato essere un successo per me. È un gruppo che ammiro, soprattutto il loro Presidente — Michele Ottonello, N.d.R. — che è persona saggia, umile e che non guarda certo al colore della pelle o alla provenienza etnica. Valley’s Got Talent, è bene dirlo chiaramente, la considero la mia famiglia biologica. Non li dimenticherò mai.
Come sai sicuramente meglio di me, in molti in passato hanno speculato sugli sbarchi, dicendo sciocchezze su un modo che nemmeno immaginano. Addirittura, qualcuno sosteneva che le ONG potessero dirsi “taxi del Mediterraneo”; altri, in modo ancora più grave, creavano una pericolosa e falsante equivalenza tra immigrati e terroristi. Cosa ne pensi di questo?
È ovviamente solo una speculazione — siamo molto lontani dalla realtà. Non ci sono, non esistono, i taxi del Mediterraneo, figuriamoci i terroristi! All’imbarco, ti dicono solo due cose: “questa è la strada per l’Italia. Ora il destino è nelle tue mani” e “O parti, o muori”. Il resto sono sciocchezze.
Da qualche settimana ormai siamo usciti di casa. Come questa esperienza fatta con il lockdown, causato da questa pandemia, ha inciso nella tua vita?
Io sono ottimista. È stata anche, in senso ampio, un’esperienza e spero che un giorno la si possa raccontare sotto forma di storia. Ciò detto, bisogna prima resistere — e io sono sia abituato, sia resiliente: sono forte e non mi arrendo mai. Abbiamo bisogno di tenere duro, anche quando non c’è forza o capacità di affrontare le situazioni difficili: credimi, lo so per esperienza, bisogna resistere alle avversità con una mentalità positiva, perché con la nostra mentalità possiamo cambiare tutto. Per molto tempo dovremo convivere con questo problema, adattarsi per quanto possibile, per adattare le nostre vite e le nostre abitudini. Distanziamento sociale e nuove norme igieniche stanno cambiando la nostra vita, e dovremo essere forti finché la scienza non troverà un rimedio; la cosa che mi preoccupa, oltre alla crisi sociale che già stiamo affrontando, è la crisi economica che seguirà: molte imprese rischieranno di chiudere, per cui bisognerà avere la forza di reinventarsi e ricominciare. Ma io, ripeto, sono ottimista: come la storia insegna — sto pensando agli anni seguenti la Seconda Guerra Mondiale — se riusciremo, un passo alla volta, ad aiutarci sono sicuro che supereremo la crisi — fino ad allora dobbiamo aver pazienza e fiducia nelle istituzioni.
In conclusione, ti chiederei un auspicio personale, non necessariamente legato ai contenuti dell’intervista, ma generale. Insomma, una speranza per il futuro.
Prima dell’auspicio, se mi è concesso, volevo condividere qualche parola con tutte le persone che le leggeranno, dando del “tu” a ciascuno di loro: stabilisci sempre un obiettivo; non fare nulla se non riesci a dedicartici al 100%; ricorda che il talento, senza risultati, è inutile, mentre i risultati senza talento sono noiosi: perché — come nel calcio, così nella vita — vinciamo come una squadra e perdiamo come una squadra, condividiamo successi come fallimenti.
Non possiamo aiutare tutti, ma tutti possono aiutare qualcuno: la situazione dell’Africa subsahariana, per esempio,è drammatica, ma le periferie del mondo contano poco per l’opinione pubblica europea. È come nel mio viaggio, insomma: si deve andare avanti, mai voltarsi indietro.
Come auspicio personale, auguro a ogni persona che occupa un posto nel mio cuore, alla mia mamma in particolare — ma anche a tutte le altre — che il suo cuore si inondi come di mimosa, che si riempia di gioie e felicità, e che il suo — ma, in generale, il nostro — domani possa essere più sereno dell’oggi.
Federico
E’ una intervista davvero coinvolgente e sono felicemente commosso del fatto che Ibrahim si trovi bene e abbia saputo ricostruire pezzo per pezzo la sua giovane vita. Sono anche molto contento del fatto che il passato di dolore e di sofferenza sia alle spalle. Anche io ho amici qui a Milano dal Mali ed anzi sono padrino di Battesimo del figlio di uno di loro, Chris che ormai ha 6 anni.
Ci sono però dei quesiti che da sempre mi girano per la mente: se l’Italia (dico l’Italia e non l’Europa) aiuta gli africani, che aiuta l’Africa posto che i primi ad abbandonarla sono proprio i suoi abitanti?
E’ ben comprensibile il turbamento e la gioia per una giovane vita che si salva, per mille diecimila vite che si salvano. Ma in Africa ci sono milioni di africani che subiscono la ruberie di potenze straniere magari con la complicità dei politici locali corrotti. E la sofferenza di milioni di persone non è delegabile a istituzioni che non sempre sono trasparenti e oneste.
Credo che una lotta per la liberazione ed emancipazione dell’Africa sia nell’interesse di tutti: in primis dei suoi abitanti.
Condividi Federico ti prego queste poche righe con il nostro giovane amico. Mi farebbe molto piacere avere una sua risposta.
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Non la farò mancare. Ti resta solo da attendere 🙂
Grazie come sempre,
Federico.
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Ovviamente, come si evince anche dalla copertina che avete pubblicato, l’autore del romanzo non è Ibrahima, ma Rosa Johanna Pintus. Non è corretto che se ne assuma la paternità.
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Cara Cristina, la ringraziamo della sua segnalazione. Un po’ sbadata, però, oseremmo dire: se vede, nella parte della domanda, c’è scritto “un romanzo”, e “una delle tante testimonanze della tua vita”. È lui, in sede di risposta, a dichiarare sua l’opera — che peraltro senza Ibra non sarebbe mai esistita — ed è in un’ottica di chiarimento che abbiamo messo la foto della copertina. Ciò detto, stare a questionare su tale e tanta questione di fronte a un’esperienza simile, così commovente, personalmente lo trovo triste. In ogni caso, visto che non crediamo nella censura, pubblichiamo il suo commento e anche la nostra risposta. Se però la cosa non dovesse placarsi dopo questa risposta chiarificante, per evitare uno spiacevole equivoco sotto un’intervista di tal fatta, rimuoveremo i nostri commenti — nostri e suoi — per chiarire privatamente, magari via mail. Grazie mille e buona serata
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Credo che a questo punto non ci sia altra scelta che denunciare voi e il.sig. Diallo, un irriconoscente che si è preso il merito di quanto prodotto dalla sua docente di lettere. Adiremo per vie legali.
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Si calmi, la prego. Modifico subito il testo, ma sono dichiarazioni di Ibrahima, non altro. Noi non c’entriamo nulla. Abbiamo pubblicato sue parole.
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Come vede, sono state modificate tutte le frasi e citata esplicitamente l’autrice. Ora è tutto a posto. Ci scusiamo per il disguido ma, come immaginerà, non sapevamo nemmeno che fosse la sua Docente di Italiano, figuriamoci altro. In ogni caso, ora è tutto chiarito e il testo rende giustizia. Ci dispiace per il disguido, reiteriamo le nostre scuse, e le auguriamo un sereno proseguimento richiedendo una risposta di avvenuta ricezione e di chiarita situazione.
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Tutto è bene quello che finisce bene. Ve lo avevo già scritto riguardo alla poesia e non mi avete voluto credere. Personaggi e autori sono entità distinte e il libro non racconta solo la storia di Ibra e neppure le testimonianze di ragazzi che lui ha conosciuto, dentro ci sono le storie di altri ragazzi della scuola che però non hanno ritenuto opportuno scrivere il proprio nome. E’ andata così e sono contenta che, grazie a Cristina, la vicenda sia stata chiarita, perché sono due anni che vedo girare le mie parole e intervistare chi non le ha scritte. Sono cose che fanno male ma sono contenta che la vicenda ora sia chiara nella sua complessità.
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Assolutamente sì, la ringraziamo e ci scusiamo ancora. Purtroppo, la mancanza è stata di Ibrahima nella sua comunicazione a noi. Se per lei la faccenda finisce qui, ringraziandola moltissimo della sua comprensione, il minimo (ma anche il massimo) che possiamo fare è scrivere una pubblica ammenda in calce all’articolo in uscita domani, il cui link le farò prontamente avere. Ringraziandola di tale e tanta comprensione, attendendo sua conferma di sopita emergenza, scongiurando così il rischio di una denuncia che avrebbe fatto più male che bene, la ringraziamo ancora di tutto il suo incommensurabile lavoro. Attendendo sua conferma, la salutiamo moltissimo, speranzosi un giorno di poterla conoscere e scusarsi di persona. Ancora grazie, Federico.
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