Le esperienze della vita sono come la neve: non passano mai senza lasciare traccia. Se non resta come una coperta bianca sulla superficie, di sicuro si scioglie nella terra per dare vita, l’anno venturo, ai semi ora dormienti. Così sono quelle lezioni che ci preparano a quel futuro che tanto temiamo.
Durante la mia infanzia mio papà è venuto a lavorare in Italia. Io ho vissuto tra due famiglie tanto diverse: da una parte quella materna — mia mamma ha deciso di tornare a vivere con i suoi in assenza del marito — e dall’altra quella paterna, con cui passavo sempre i week end, se non metà della settimana. Devo ammetterlo, è difficile mettere un piede in ogni mondo e riuscire a mantenere l’equilibrio: spesso, nella sua ricerca, si propende verso una parte piuttosto che l’altra. Crescendo però si impara per quanto tempo conviene trattenere il peso a destra o a sinistra senza attribuire positività o negatività all’una o all’altra: l’immigrato è semplicemente quei due piedi al confine.
Il giorno del mio arrivo in Italia faceva freddo, nevicava. L’orologio segnava le ore tredici, o mezzogiorno in Algeria. Già da quel momento i due mondi avevano iniziato a entrare l’uno nell’altro come fossero due gocce che si fondevano in me: “Ciao”, invece dell’usuale “Salaam”, che significa pace — e già mi chiedevo se l’ho lasciata o l’andavo a cercare, quella pace. Oggi, invece, so che si trova proprio nel mio mettere il velo Carpisa. Tanta neve invece della solita pioggia, pasta invece di bureq e anche l’essere particolare invece di essere parte della normalità. Arriviamo a casa dopo un lungo viaggio accompagnati dalle luminarie. È Natale. Penso a come sarà questa festa mentre ripenso alla tavola, anzi alle tavole, che occorrono per bastare a tutta la famiglia durante la festa del sacrificio o anche quella successiva il Ramadhan. Dopo due giorni facciamo visita alla cittadina che mi insegna la prima frase, che ancora ricordo bene: “Benvenuti a Sondrio”. Di contro, o forse a sostegno, appare alla mente “L’Algerie vous remercie puor votre visite”, l’ultimo saluto del mio paese. Un piccolo sorriso si apre nel ricordo della ragazzina che ero mentre vedevo mio papà avvicinarsi all’ultimo sportello che ci separava — la valigia che trascinavo era più grande di me. Era colma, non so dire se di vestiti o di esperienze. Di sogni o di speranze. Di ricordi o di opportunità. Ma so che per me pesava. Tanto quanto pesava salutare tutti con coraggio e arrivare a quella cugina, tanto amica, da scoppiare a piangere mentre ci abbracciavamo. La nostalgia aveva già iniziato ad ardere, in quel saluto. Mi ricordo dirle “Addio”, non perché credevo di non rivederla più quanto per il fatto che la nonna mi aveva spiegato che l’augurio più bello è affidare l’altro a Dio. Passano i giorni ed io inizio ad ambientarmi nel nuovo mondo. Credevo mi sarei agitata il primo giorno di scuola, una volta sola, come tutti quanti. Ma a me toccava ripetere i passi. Sono due le volte in cui mi sono presentata a scuola per la prima volta senza sapere ancora comporre le frasi più semplici. Così sono diventate due anche le prime compagne di banco del primo anno. Due prime volte in cui vado a fare compere senza nessuno al mio fianco, da piccola per assistere alle trattative e da grande per tradurre le parole. Le prime volte sono diventate sempre due e il destino sembra avermi preparata precedentemente la strada. Ecco, tutte le prime volte sono diventate più facili! Come il vivere in questo nuovo mondo tanto presente in me da essere oramai vecchio. A passi attenti si impara a dare equilibrio alle due appartenenze, alla nostalgia no. L’essere immigrata e proprio quel mio cuore spezzato alla fine di ogni vacanza in Algeria. Passa l’estate, dopo un anno completo vedo tutti gli amici, la famiglia, tutti quelli che conoscevo e pure tutti quelli che non conosco. Ma i giorni scadono e l’ultimo saluto bussa alle nostre porte. Ricordo mia nonna che versa dell’acqua dopo la nostra partenza, tradizionale augurio di ritorno. Insieme a quelle gocce sul pavimento scendono le mie lacrime così intense, piene di emozione, da farmi pensare ad ogni piccolo secondo trascorso con loro, alla prossima volta che ci rivedremo, se saremo tutti o mancherà qualcuno. La vita è breve e come ha rubato la mia cugina mentre io, qui, seguivo prove di teatro, potrebbe portarsi via qualcun altro. Anche me. E allora saranno altri a pensarmi sull’altra sponda del Mediterraneo. Tra le ultime luci della periferia di Tbessa mi pare di vedere quelle del porto di Genova ad attendermi. La strada verso Sondrio che sembra soltanto il corridoio che mi porta in camera. Penso a quale delle amiche avrei salutato per prima; una colazione da Sabrina ci vuole proprio dopo la lunga vacanza. E un giro in piazza o anche lungo l’Adda. Mi manca vedere le amiche ad aspettarmi con la cialda di gelato al pistacchio e nocciole, del resto, in Algeria, il gelato è quasi ghiaccio insapore. Forse usciamo anche a mangiare una pizza. Mi manca tanto dire quel semplice “Buongiorno” per salutare i vicini in ascensore, sentire il loro “Bentornata” e sapere che sì, ora sono a casa.
Pensavo fosse molto difficile vivere in due mondi contemporaneamente ma di nuovo torno a ripetere i passi: è come imparare a stare sull’altalena. Una volta sei giù, un’altra sei su. Continua così, tu va’ avanti ad apprezzare il verde dell’erba e l’azzurro del cielo, tenendo entrambi stretti al cuore. Una volta sei giù. Un’altra sei su. In alto, vuoi tornare a toccare la terra. In basso, vuoi dare un’occhiata al sole.
Djehad Bezzi
Post Scriptum del redattore: il racconto succitato, come del resto già scritto nell’editoriale d’inizio mese, è già stato pubblicato, vincendo il Concorso Io ti racconto svoltosi all’interno di un progetto locale dal nome Io mi racconto, tu ti racconti, noi ci incontriamo. In occasione di questa nuova pubblicazione sulla nostra piattaforma, però, l’autrice e chi scrive ora si sono accordati per operare qualche modifica al testo originale, con l’intento di renderlo ancora migliore rispetto a quanto già non fosse.